Zoologia elettorale

La caccia | Trasmessa il: 03/21/1999



Dunque, sembra sicuro che tra i simboli politici proposti alla nostra attenzione, dopo l’Asinello, ci toccherà anche quello dell’Elefante. Come sempre, il conclamato desiderio dei nostri politici di essere “nuovi” o “moderni”, anche sul piano simbolico, si risolve nell’imitazione pedissequa degli Stati Uniti d’America.  Con la differenza, naturalmente, che laggiù i due nobili animali caratterizzano, più nella tradizione che nell’uso corrente, due partiti decisamente alternativi l’uno all’altro, mentre da noi ben poco di alternativo si può trovare in formazioni che, oltre a essere entrambe zeppe di ex democristiani, nascono per presidiare lo stesso spazio politico per conto dei rispettivi poli, con lo scopo dichiarato di sfruttare quella che, fin dai tempi di Craxi, si suole chiamare la “rendita di posizione”, come a dire per farsi pagare profumatamente il proprio ruolo di portatori di acqua.
        Eppure, sarebbe difficile far risalire la scelta di quei simboli a qualcosa d’altro che alla volontà di imitare i padroni americani.  Asini ed elefanti, che io sappia, non hanno mai avuto un particolare significato simbolico, in politica o altrove.  Sì, l’asino è stato a lungo l’emblema della cieca ostinazione, della riluttanza ad apprendere, e la testata di un famoso periodico socialista dei primi del secolo lo paragonava nientemeno che al popolo, anch’esso “umile, paziente e bastonato”, ma oggi la riluttanza ad apprendere è troppo diffusa perché la si possa limitare a qualche gruppo specifico e l’umiltà, con tutto il rispetto dovuto, non sembra la dote caratteristica dell’on. Prodi e dei suoi compagni di strada.   D’altro canto, un tempo dell’elefante si soleva vantare la memoria, che è anch’essa una dote difficile da associare a una struttura politica i cui leader, come dimostrano i casi degli onorevoli Segni e Masi, fanno fatica a ricordare persino in quale schieramento sono stati eletti.
        Va anche detto che la mancanza di memoria non è una caratteristica che si possa associare soltanto a quel gruppo politico. Anzi, forse è proprio nella sua diffusione che possiamo cercare la chiave con cui spiegarci la vaghezza che caratterizza da  un po’ la scelta dei simboli politici.  Perché l’asino e l’elefante non esprimono, in sé, dei particolari messaggi, ma non è che la quercia o l’ulivo, tanto per passare dal mondo animale a quello vegetale, siano degli emblemi particolarmente eloquenti.  Sono, sempre con tutto il rispetto, delle etichette piuttosto generiche, assunte, a suo tempo, proprio in nome della loro genericità, perché lasciavano mano libera a chi le inalberava.  I simboli di una volta, quelli con cui siamo cresciuti noi, le croci, le falci e martello, i pugni chiusi e quant’altro, attingevano alla loro stessa storia dei significati piuttosto precisi, esprimevano – come si dice – un’identità “forte”, più forte, talvolta, della volontà di chi li aveva ereditati.  Per questo appunto sono stati dismessi.  Oggi un’identità, forte o debole, in politica non la vuole nessuno.  Se Prodi, Rutelli, Di Pietro, Cacciari e gli altri hanno deciso, dopo qualche sofferenza, di farsi chiamare semplicemente “i democratici” ciò non vuol dire, credo, che neghino agli altri una patente di democraticità o che affermino, in qualche modo, di essere più democratici di loro.  Sarebbe, dal punto di vista delle comunicazioni, un errore grave, che non sono tanto asini da commettere.  Hanno semplicemente scelto la minima comun denominazione disponibile sul mercato.  Sono democratici: embé?  Non lo siamo forse tutti?  Quell’epiteto non li impegna a niente, perché quel vecchio termine, che pure ha significato qualcosa nella storia ideologica del pianeta, ormai è tanto usurato da risultare perfettamente innocuo.  L’asinello è libero di galoppare nella direzione che vuole.
        Quelli che di galoppare sono un po’ meno liberi, restiamo noi.
21.03.’99