Vittime

La caccia | Trasmessa il: 04/02/2000



Visto che siamo tra amici, mi permetterete – spero – di sostenere una tesi che potrebbe venire fraintesa.  Io non credo che ci sia da compiacersi, nonostante quasi tutti se ne siano compiaciuti, del voto con cui la Camera dei Deputati, martedì scorso, ha deciso quasi all’unanimità di proclamare per il 27 gennaio di ogni anno il “giorno della memoria”, perché non venga mai dimenticata la Shoah, il terribile genocidio perpetrato contro il popolo ebraico dai nazisti tedeschi e dai loro alleati.   Credo di capire i motivi che hanno spinto i nostri parlamentari a prendere quella decisione, ma, mi spiace, non la ritengo giusta.
        Cercate di capirmi.  Non sono certo motivato dalla volontà di negare, sulla falsariga del revisionismo storico contemporaneo, la realtà della Shoah, o di sminuirne in qualsiasi modo il terribile significato.  Il 27 gennaio è la data della liberazione di Auschwitz e la visita di Auschwitz, che ho avuto più volte occasione di fare, accompagnandovi delle scolaresche, resta una delle esperienze più sconvolgenti che abbia vissuto.  E non condivido, naturalmente, il punto di vista dei quattro “onorevoli” (Colletti, Mancuso, Previti e Savelli) che sulla proposta si sono astenuti, eccependo che, come si ricordano le vittime del nazismo, così bisognerebbe ricordare quelle del comunismo, affiancando al ricordo istituzionalizzato di Auschwitz quello, altrettanto istituzionalizzato, del Gulag.  Io rispetto anche le vittime del Gulag, naturalmente, ma mi sembra che questa sorta di ragioneria della persecuzione, per cui ai morti di una parte si contrappongono quelli dell’altra, come per compesarli, nell’inconfessata presunzione che una mano lavi comunque l’altra, mi sembra particolarmente meschina e disgustosa.   E comunque non può funzionare, perché davvero troppe sono le “cause”, nobili e ignobili, in nome delle quali gli esseri umani, ieri come oggi, si sono sentiti autorizzati a umiliare, vessare, sfruttare e massacrare i loro simili.  La storia dell’umanità è una storia di stragi e la storia della cultura consiste, in buona parte, nell’elaborazione di complessi sistemi ideologici con cui giustificarle.  Ma per chi rifiuta di riconoscere dignità a quei tentativi, tutti gli appartenenti ai popoli sterminati per avidità di conquista, tutte le vittime del nazionalismo, del razzismo, della miseria e dello sfruttamento, i morti in schiavitù, le supposte streghe e gli eretici arsi sul rogo, le vittime degli autodafé e dell’intolleranza  sono fratelli in spirito dei sei milioni di morti della Shoah, come lo sono, al giorno d’oggi, i protagonisti delle nostre cupe cronache quotidiane: dai poveracci che hanno perso la vita sotto i “bombardamenti umanitari” partiti da Aviano agli albanesi massacrati dai serbi e ai serbi massacrati dagli albanesi, dai profughi affondati e lasciati annegare nel canale di Otranto agli “extracomunitari” bruciati vivi nelle industriose cittadine padane.  Sono tutti casi diversi, certo, ma la realtà di chi viene perseguitato e ucciso dai suoi simili solo perché i suoi simili non si considerano tali è sempre, inesorabilmente, quella.  Da un certo punto di vista, ahimè, le vittime sono tutte uguali e ricordandone soltanto alcune si rischia, magari involontariamente, di mancare di rispetto alle altre.
        Posso sbagliarmi, naturalmente.  Ma, in fondo, di dichiarare solennemente che i nazisti sono cattivi e che i loro delitti non vanno dimenticati sono capaci tutti.  Rendersi conto dell’intolleranza di cui è impastata la nostra democratica società, riflettere sulle vittime che produce, rendere anche a esse l’onore che meritano può essere più difficile, ma è altrettanto necessario.   E, credetemi, su questo impegno non troveremo mai un’unanimità.  Per fortuna.

02.04.’00