Vaneggiamenti senza vergogna

La caccia | Trasmessa il: 12/21/2008


    Lunedì ieri, al talk show di Gad Lerner, si parlava di vanità e, in particolare della vanità dei politici. Un tema interessante, che dava finalmente adito a un dibattito un po' diverso dai soliti e permetteva il gioco, sempre stimolante, di misurare le travi nell'occhio di quanti si ingegnano a rilevare le pagliuzze nella pupilla altrui. Tra i partecipanti si segnalavano un paio di giornalisti di grido e due pensatori insigni, quali Franco Cordero, sempre molto erudito, e Gianni Vattimo, che avrebbe detto senz'altro delle cose interessanti se lo avessero lasciato parlare, ma ogni volta che apriva bocca interveniva qualcun altro e immagino sia quello che succede quando si è noti soprattutto come teorici del pensiero debole. In seconda linea, una professoressa dell'Università di Salerno, un po' carente quanto a comunicazione, e altri habitués di questo tipo di incontri. Il titolo di mattatore della serata spettava, comunque a tale Alfonso Signorini, direttore, come abbiamo appreso, di “Chi” e “TV Sorrisi e Canzoni”, grande esperto, quindi, in vanità altrui, nonché detentore in proprio del titolo di Faccia di bronzo dell'anno, non foss'altro per l'allegra impudenza con cui si ostinava a negare di avere per lo meno sentito il bisogno di consultarsi con il suo datore di lavoro quella volta che aveva deciso di di mandare un edicola un numero speciale interamente dedicato alle fotografie del medesimo e della famiglia. Tra tutti ci hanno se non proprio stimolato intellettualmente, per lo meno divertito, che è poi il massimo che a un talk show si possa chiedere e di questo gli siamo grati.
    Tuttavia, da un punto di vista strettamente intellettuale, il dibattito è stata una mezza delusione. Tanto per cominciare, si è finito per parlare esclusivamente di Berlusconi, che sarà, sì, un po' vanesio, ma lo si è detto tante di quelle volte che non se ne può più e poi, almeno, lui se lo può permettere ed è un vero peccato perderci del tempo quando si avrebbero a disposizione un D'Alema e un Veltroni, usi a coniugare un compiacimento di sé altrettanto plateale con la più desolante inettitudine e tali quindi da offrire il destro a speculazioni molto più articolate. Nessuno, inoltre, si è chiesto davvero che cosa fosse la vanità. Davano tutti per scontato che consistesse nella volontà di apparire e di farsi ammirare, che fosse, cioè, una forma minore e un po' volgare di ambizione, la tendenza a compiacersi del plauso delle masse anche se, per ottenerlo, si è costretti a seguire le tendenze più grossolane del popolino, qualcosa di mezzo tra il presenzialismo e la cafonaggine e aveva un bell'affannarsi il povero Cordero a citare Pascal e La Rochefocauld per far capire come un tale peccato non sia poi tanto veniale, perché la forma di egotismo che configura ha implicita in sé la tendenza ad abusare degli altri, ma su quel terreno difficile gli astanti non si sforzavano di seguirlo.
    Io, che quanto a vanità – naturalmente – avrei qualcosa da confessare, ho sempre creduto che il problema non fosse tanto di stile, ma di quadro valori. Ho molta fiducia nel valore semantico delle etimologie e resto convinto che tra il rapporto tra “vanità” e “vano” non sia stato sufficientemente esplorato. È nel dare valore alle cose vane che soprattutto si configura questo peccato ed è di questa vanitas vanitatum che si autoaccusava l'autore dell'Ecclesiaste, quello che parla in persona di Salomone: il fatto che tra le piccolezze che si rinfacciava ci fossero quella di essere stato re in Gerusalemme e quella di aver accumulato grande sapienza significa solo che il problema è quello di cosa considerare importante e cosa no e che il vanitoso pecca soprattutto di autocontraddizione. In questo senso la vanità è affatto distinta dalla superbia, che può essere o non essere quaesita meritis, come diceva Orazio, e si riduce a un dar peso a quanto la comunità di cui facciamo parte, o di cui aspiriamo far parte, considera futile. Così Berlusconi (e scusatemi se torno a lui, ma è solo per intenderci meglio) non potrà essere considerato vanitoso se magnifica le proprie ricchezze e la propria carriera – salvo dai pochi che, come me, si ostinano a considerare la proprietà a un certo livello sempre e comunque un furto – ma lo sarà senz'altro quando si compiace di trapianti di capelli e di scarpe col tacco rafforzato o quando vanta una potenza sessuale che l'esperienza della maggior parte dei suoi coetanei fa inevitabilmente supporre limitata al campo dell'affabulazione. Quanto a coloro che, come i principali esponenti dello schieramento a lui avverso, non hanno mai combinato in vita propria altro che disastri e pure riescono a compiacersene, la sindrome è più grave e coinvolge, presumibilmente, le capacità di discernimento, ma converrete anche voi che dipo quel che è successo in Abruzzo non è il caso di infierire.
    Il vanitoso, di solito, soffre di falsa coscienza, perché la sua ideologia mette in prima evidenza quelle cose “serie” di cui, in effetti, meno gliene potrebbe fregare (per Berlusconi, così, il bene del paese; per Veltroni quello della sinistra, eccetera), ma questo significa solo che è inconsciamente sincero, che nella selva di valori di cui sono intessute le sue interrelazioni personali e sociali sceglie d'istinto di mettere in rilievo quelli cui, nel suo intimo, tiene davvero. A volte è consapevole della contraddizione, altre volte, come appunto Berlusconi, no. È un caso, quest'ultimo, di vanità fortunata, vissuta senza drammi e senza patemi. Gli altri, quelli che se ne accorgono, a volte ne soffrono e se ne vergognano. Così il Petrarca, che al tema della propria vanità era acutamente sensibile, al punto di dedicarvi, in pratica, l'intero Canzoniere, ne provava una profonda vergogna – lo scrive lui stesso nel sonetto di introduzione: e del mio vaneggiar vergogna è frutto – e non riusciva ad ammettere che proprio dal contrasto tra la sua cultura medioevale – l'ideologia – e le cose che questa gli faceva considerar vane nasceva la sua poesia, in tutta la sua drammatica modernità.
    Ahimè, di Petrarca ne nasce solo uno ogni tanto e i Pascal e i La Rochefocauld oggi ce li sogniamo. La miseria dei tempi ci condanna a vivere in un mondo di sinvirgüenza, di gente che si gloria dei propri poveri vizi e ostenta con sincero compiacimento le proprie debolezze e la propria capacità di far danno. La loro vanità è semplice mancanza di spessore culturale, o forse mera incapacità di supporre che esista una dimensione del genere. Che gli dei li possano perdonare, perché noi no.

    21.12.'08