Utili anniversari

La caccia | Trasmessa il: 11/02/2008


    Non so se e in quale forma si realizzerà, dopodomani, l'auspicio del ministro Larussa, che vorrebbe – ho letto – che nelle scuole di ogni ordine e grado si celebrasse il novantesimo anniversario della “vittoria” italiana nella prima guerra mondiale. Di altre iniziative, alcune lodevoli, come il convegno di studi promosso, mi sembra, in sede parlamentare, altre più folcloristiche, tipo l'accensione del tricolore luminoso sul monte Sabotino in presenza del sottosegretario Giuseppe Cossiga (!), ho avuto notizia, ma su quelle previste in sede scolastica regna una certa vaghezza. Certo, come molte cose che succedono nella nostra scuola, rischiano di essere un deja vu. La celebrazione della prima guerra mondiale, ricordo, mi ha perseguitato per tutta la durata dei miei studi, dalle poesiole in onore dei caduti che ci facevano imparare a memoria alle elementari al tema “storico” che figurava nella terna propostaci all'esame di maturità e per fortuna che la professoressa che fungeva da “membro interno”, gran brava donna, conoscendo le mie opinioni in proposito (nonché quelle del commissario d'italiano) mi consigliò sottovoce di lasciar perdere e di buttarmi sulla contemplazione del dolore in Leopardi, che, come traccia, era forse un poco banale, ma, da un certo punto di vista, meno rischiosa. Perché allora su quel fatto d'armi non si scherzava, le sue ragioni venivano presentate come indiscutibili, che l'Italia vi fosse stata trascinata per volere sovrano a dispetto della maggioranza del paese e del parlamento non lo diceva nessuno e sul fatto che quella catastrofe della democrazia rappresentasse, a buon diritto, l'atto di nascita del fascismo si preferiva glissare. Persino una interpretazione celebrativa, sì, ma non compiutamente eroica, come quella di Mario Monicelli, che, con un film intitolato appunto a “La grande guerra”, interpretato da un grande Gassman e un grandissimo Sordi, vinse nel 1959 il Leone d'Oro a Venezia era stata accolta con deplorazioni e polemiche di ogni tipo. Il secondo dopoguerra aveva ereditato in blocco l'interpretazione nazionalista (e fascista) del fenomeno ed eventuali opinioni in senso contrario non avevano diritto di cittadinanza. Sarà stato il desiderio di annegare nella celebrazione di una guerra vittoriosa (o presunta tale) il ricordo delle recenti batoste nel secondo conflitto mondiale, del quale, in effetti a scuola non ci parlava nessuno, o sarà stato, più probabilmente, il fatto che molto dell'ideologia fascista, in quegli anni, sopravviveva negli apparati dello stato, scuola compresa. Ma è anche vero che allora, se non altro, di ministri provenienti dal Movimento Sociale non ne avevamo.
    Oggi, almeno dal punto di vista storiografico, la situazione è cambiata e su quei fatti si possono esprimere giudizi un poco più articolati. Ma a me, che volete, sembra significativo che uno come Larussa, che adesso è ministro, naturalmente, e si è lasciato alle spalle qualsiasi tentazione nostalgica, figuriamoci, ma attraverso il fascismo è perlomeno passato e magari qualche residuo, malgré lui, gli è restato appiccicato addosso, si spenda perché vengano celebrati. Io non so, lo ripeto, quali iniziative egli abbia preso, ma dubito alquanto che la sua interpretazione degli eventi, dalle “radiose giornate” del maggio 1915 alla “Vittoria mutilata” del 1918-'19, possa essere condivisa in una prospettiva serenamente democratica. Come dubito, del resto, che, nonostante l'ossequio che professa per la chiesa e la gerarchia, il ministro concordi con la celebre espressione di papa Benedetto XV, che, in un suo appello alle potenze europee, ebbe a definire la guerra una “inutile strage”. Un giudizio, in realtà, che oggi non mi sembra condiviso da molti, nemmeno tra i cattolici, tra i quali il ricordo di quel pontefice, che pure ebbe i suoi meriti, si direbbe sparito, e non lo è certamente tra i promotori delle varie iniziative di commemorazione, che nient'altro sembrano chiedersi se non in che cosa il conflitto sia stata utile al popolo italiano.
    Eppure, che volete che vi dica, a me, che pure per i papi non nutro, come sapete, una soverchia simpatia, quella formula, nella sua concisione, sembra ancora la definizione migliore che di quell'evento sia mai stata data. Perché una strage la prima guerra mondiale lo fu senz'altro: costò, all'ingrosso, dieci milioni di morti, senza contare le vittime civili, che allora non rientravano nelle statistiche . In Italia i caduti furono 600.000, parecchi di più degli abitanti di quei “territori irredenti” che ci si proponeva di liberare, anche se la maggior parte dei loro abitanti, essendo di nazionalità tedesca, slovena e croata, non aveva grandi inclinazioni a farsi redimere. E quanto all' “inutile”, be', basta riflettere un poco sulla situazione mondiale di oggi. Nessuno dei grandi problemi geopolitici per risolvere i quali si era combattuto (o si era detto di aver combattuto) può dirsi veramente risolto. Anzi, la sistemazione postbellica voluta dai vincitori è stata alla radice di innumerevoli complicazioni, che, oltre a determinare vent'anni dopo un altro immane conflitto, si sono in qualche modo perpetuate fino ai nostri giorni.
    Vediamo. A parte il fatto che la conseguenza principale di quella guerra, l'ascesa degli Stati Uniti al rango di potenza mondiale, non fosse stata né prevista né voluta, in Europa i vincitori si ritrovarono in braghe di tela non meno dei vinti. Il fatto che il principio di nazionalità fosse stato applicato solo quando conveniva a certuni, negandolo agli altri, ha comportato (e comporta) altro sangue e altre lacrime. Il trattamento riservato alla Germania ha prodotto, con inesorabile consequenzialità, il revanscismo nazista. La distruzione dell'impero asburgico ha reso ancora più instabile l'equilibrio nel continente e la creazione della Cecoslovacchia si è rivelata un esperimento effimero, destinato a durare non più di un paio di generazioni. La pretesa di risolvere la questione balcanica inventando uno stato artificiale come la Jugoslavia ha prodotto i frutti avvelenati che tutti conosciamo. I criteri impiegati nella spartizione dell'impero ottomano hanno dato origine a crisi con cui ancor oggi dobbiamo fare i conti, in Iraq, Palestina e altrove. Eccetera, eccetera, eccetera. Mai nella storia umana ferocia e insipienza si sono manifestate in tali terribili proporzioni, acuendo ciascuna l'effetto dell'altra.
    Di tutto questo, naturalmente, non è inutile ricordarsi. La storia non insegna a evitare gli errori del passato, ma non è giusto lasciar cadere nell'oblio il dolore delle vittime e la boria dei responsabili. Ma che se ne debba fare oggetto di celebrazione, nelle scuole o altrove, è tutt'altro discorso. Capisco che personaggi come Larussa (e non solo lui, naturalmente) possano riconoscersi nell'evento e ne apprezzino certe conseguenze, ma questo, appunto, è il problema. Il presidente della Camera, che non per niente ha in comune con il ministro della Difesa qualche trascorso, ha detto che quel 4 novembre “milioni e milioni di italiani che fino ad allora erano rimasti lontani o estranei allo stato unitario scoprirono di aver superato insieme una prova tremenda e cominciarono a sentirsi coinvolti in una medesima comunità di destino”. Belle parole, che trascurano tuttavia il fatto che a quella prova gli italiani furono spinti di forza e che il destino che dovettero condividere fu, per la maggioranza di loro, quello di chi deve pagare sulla propria pelle l'avidità e l'incapacità altrui. E capirete che perché avessero coscienza di un tale destino non c'era proprio nessun bisogno di sbatterli nelle trincee.

    02.11.'08