Motivi di forza maggiore mi impediscono, per una volta, di rivolgermi a
voi in diretta, per cui potrei anche sbagliarmi, ma sono abbastanza sicuro
che si sarà ormai spento, al momento in cui mi ascolterete, l’interesse
dei giornali e dei loro lettori per il caso della studentessa che ha dato
alla luce un maschietto in quelli che, con una metafora che mi è sempre
parsa un po’ incongrua, vengono definiti i “bagni” del liceo “Parini”,
qui a Milano. Lei se l’è cavata, il bambino anche, le compagne hanno
fatto una colletta per comprarle un passeggino e hanno appeso un fiocco
azzurro sulla porta dell’aula (non, per fortuna, su quella dei “bagni”),
uno dei candidati a sindaco – indovinate voi quale – ha reso noto di
averle scritto per spiegarle che “un bimbo è la cosa più bella che la
vita può dare a una donna” e confidarle il proprio numero di cellulare,
dimostrando, mi sembra, che pur di farsi pubblicità certa gente è capace
delle azioni più invereconde, e la cronaca non ha molto altro da registrare
. Forse, se la protagonista dell’episodio fosse stata una studentessa
del rinomato liceo ginnasio di Brera l’evento avrebbe suscitato qualche
emozione in più, perché le vicende dei rampolli della milanesità bene toccano
sempre il cuore dei nostri concittadini, ma alla milanesità bene la ragazza
in questione non appartiene, è figlia di immigrati sudamericani, vive nell’hinterland,
frequenta a diciannove anni il penultimo anno del “Tenca”, un ex istituto
magistrale che nella sede del “Parini” è soltanto ospitato, per cui,
nel sentire comune, i suoi casi interessano molto meno. Ed è anche
vero, detto tra noi, che difficilmente una brutta avventura di questo tipo
avrebbe potuto avere per protagonista una pariniana, non perché quelle
fanciulle in fiore non possano rimanere incinte – condividono, ahimè,
con la maggioranza delle loro coetanee quella mancanza di equilibrio e
di informazioni che può portare a un tal esito – ma perché, quando gli
capita, di solito trovano sempre una sponda cui appoggiarsi, qualcuno su
cui fare affidamento e non si trovano così disperatamente e drammaticamente
sole.
Perché quello che fa veramente rabbrividire
in tutta la storia, è il pensiero di come quella povera ragazza ha vissuto
il periodo della gestazione (nove mesi: una eternità per una diciannovenne)
senza chiedere né ricevere aiuto da nessuno, nella solitudine più totale.
Una solitudine che è facile supporre piena di timori e di incertezze,
di tentativi di autoilludersi e di consapevolezze dolorosamente e invano
rimosse. Chissà quanta paura e quanta angoscia. Chiusa in un
assurdo dramma privato e personalissimo, incapace, per motivi che non conosciamo,
ma possiamo intuire fin troppo facilmente, di uscire dal proprio silenzio,
ha dovuto stringere i denti e tirare avanti fino alla fine, così come poteva.
La cosa, forse, riempirà di esultanza quanti, sulla pelle degli altri,
blaterano di diritto alla vita, ma non può certo essere considerata un’esperienza
positiva. È stata, anzi, una storia vergognosa: non per chi l’ha
vissuta, che non ha nessun motivo di vergognarsi, ma per chi, attorno a
lei, non si è neanche accorto di quello che succedeva.
Anche questo, a pensarci, è piuttosto terrificante.
Che la ragazza aspettasse un bambino, dicono, non se ne è accorto
nessuno, né in famiglia né a scuola. E se in famiglia è ovvio che
qualcosa non ha funzionato (è ovvio anche perché la famiglia in crisi di
questo genere, tutto sommato, non funziona mai) quello che è successo a
scuola è ai limiti dell’incredibile. Tanto è vero che chi, dalla
scuola, ne riferiva ha sentito l’istintivo bisogno di giustificarsi, di
spiegare che era difficile, se non impossibile, notare qualcosa, perché
la ragazza, comunque, era molto chiusa e poi, diciamolo, era di corporatura
un po’ forte e come se non bastasse nascondeva il suo stato con camicioni
abbondanti e vestiti extra large: tutte scuse che appaiono, a prima vista,
abbastanza penose. Il fatto è che a scuola, con tutta evidenza, quella
studentessa non la vedeva nessuno. Non la guardavano neanche, come
fosse stata invisibile. Non perché fosse una immigrata, per carità:
era solo una studentessa tranquilla, non dava noia a nessuno, studiava
con discreto profitto e subiva le interrogazioni senza lagnarsi (la hanno
chiamata alla cattedra anche un’ora prima del parto e non le è neanche
saltato in testa di dire “no, per favore, sto male”), perché mai avrebbero
dovuto guardarla?
È da qualche anno, lo devo ammettere, che ho perso i contatti diretti con
la scuola. So che i miei ex colleghi in cattedra sono parecchio affezionati,
da un po’, al tema della loro professionalità, intendendo per tale la
specificità della propria funzione, come a dire – suppongo – la capacità
di trasmettere ai giovani un corpus specifico di conoscenze, e può darsi
che in questo tipo di competenza sia compresa la capacità di chiudere gli
occhi su quanto esula da tale dimensione. Nessun insegnante, naturalmente,
si spingerebbe fino a negare che sia necessario e opportuno un certo dialogo
con gli studenti, che possono aver bisogno di un consiglio o di una guida
anche al di fuori dell’ambito strettamente definito dai programmi, ma
è difficile sfuggire all’impressione che questo tema oggi interessi meno
di una volta. E comunque anche il momento del dialogo, mi dicono,
viene spesso professionalizzato, affidandolo a consulenti speciali, allo
psicologo di istituto, se c’è, o allo “sportello di ascolto”, una entità
cui i giovani possono rivolgersi nella certezza di avere il sostegno di
cui abbisognano salvaguardando, al tempo stesso, la propria privacy e quella
dei loro insegnanti. Nello specifico, non sembrerebbe proprio che
nulla di tutto questo sia entrato in azione, ma forse è stato un caso particolarmente
sfortunato. Presidi e professori, intervistati sulle pagine locali
dei quotidiani nei due giorni due in cui la vicenda ha fatto notizia, non
hanno mancato di insistere sulle difficoltà del proprio compito, sul fatto
che l’istituzione scolastica è sempre più spesso lasciata sola, sulla
drammatica scarsità di risorse che l’affligge e costringe i dirigenti
meglio intenzionati a fare a meno dei consulenti, chiudere gli sportelli
e buona notte a tutti quanti. Sarà indubbiamente vero e, d’altronde,
sapevamo già in quali pessime acque galleggi la scuola pubblica, visti
anche gli attacchi che continuamente subisce a opera dei suoi molti nemici
(tra i quali, sarà un caso, gli ideologi del “diritto alla vita” sono
in prima fila). Tuttavia… tuttavia resto convinto che per
non riuscire ad accorgersi che tra le creature che ti trovi di fronte dal
lato opposto della cattedra una è al nono mese di gravidanza, sia necessario
uno sforzo davvero particolare, una vocazione all’indifferenza che non
si vede come possa permettere a chi ne è afflitto di insegnare checché
a chicchessia. Con amici di questo genere, come si dice, che bisogno
si ha di nemici?
21.05.’06