Uno sforzo particolare

La caccia | Trasmessa il: 05/21/2006




Motivi di forza maggiore mi impediscono, per una volta, di rivolgermi a voi in diretta, per cui potrei anche sbagliarmi, ma sono abbastanza sicuro che si sarà ormai spento, al momento in cui mi ascolterete, l’interesse dei giornali e dei loro lettori per il caso della studentessa che ha dato alla luce un maschietto in quelli che, con una metafora che mi è sempre parsa un po’ incongrua, vengono definiti i “bagni” del liceo “Parini”, qui a Milano.  Lei se l’è cavata, il bambino anche, le compagne hanno fatto una colletta per comprarle un passeggino e hanno appeso un fiocco azzurro sulla porta dell’aula (non, per fortuna, su quella dei “bagni”), uno dei candidati a sindaco – indovinate voi quale – ha reso noto di averle scritto per spiegarle che “un bimbo è la cosa più bella che la vita può dare a una donna” e confidarle il proprio numero di cellulare, dimostrando, mi sembra, che pur di farsi pubblicità certa gente è capace delle azioni più invereconde, e la cronaca non ha molto altro da registrare .  Forse, se la protagonista dell’episodio fosse stata una studentessa del rinomato liceo ginnasio di Brera l’evento avrebbe suscitato qualche emozione in più, perché le vicende dei rampolli della milanesità bene toccano sempre il cuore dei nostri concittadini, ma alla milanesità bene la ragazza in questione non appartiene, è figlia di immigrati sudamericani, vive nell’hinterland, frequenta a diciannove anni il penultimo anno del “Tenca”, un ex istituto magistrale che nella sede del “Parini” è soltanto ospitato, per cui, nel sentire comune, i suoi casi interessano molto meno.  Ed è anche vero, detto tra noi, che difficilmente una brutta avventura di questo tipo avrebbe potuto avere per protagonista una pariniana, non perché quelle fanciulle in fiore non possano rimanere incinte – condividono, ahimè, con la maggioranza delle loro coetanee quella mancanza di equilibrio e di informazioni che può portare a un tal esito – ma perché, quando gli capita, di solito trovano sempre una sponda cui appoggiarsi, qualcuno su cui fare affidamento e non si trovano così disperatamente e drammaticamente sole.

       Perché quello che fa veramente rabbrividire in tutta la storia, è il pensiero di come quella povera ragazza ha vissuto il periodo della gestazione (nove mesi: una eternità per una diciannovenne) senza chiedere né ricevere aiuto da nessuno, nella solitudine più totale.  Una solitudine che è facile supporre piena di timori e di incertezze, di tentativi di autoilludersi e di consapevolezze dolorosamente e invano rimosse.  Chissà quanta paura e quanta angoscia.  Chiusa in un assurdo dramma privato e personalissimo, incapace, per motivi che non conosciamo, ma possiamo intuire fin troppo facilmente, di uscire dal proprio silenzio, ha dovuto stringere i denti e tirare avanti fino alla fine, così come poteva.  La cosa, forse, riempirà di esultanza quanti, sulla pelle degli altri, blaterano di diritto alla vita, ma non può certo essere considerata un’esperienza positiva.   È stata, anzi, una storia vergognosa: non per chi l’ha vissuta, che non ha nessun motivo di vergognarsi, ma per chi, attorno a lei, non si è neanche accorto di quello che succedeva.

       Anche questo, a pensarci, è piuttosto terrificante.  Che la ragazza aspettasse un bambino, dicono, non se ne è accorto nessuno, né in famiglia né a scuola.  E se in famiglia è ovvio che qualcosa non ha funzionato (è ovvio anche perché la famiglia in crisi di questo genere, tutto sommato, non funziona mai) quello che è successo a scuola è ai limiti dell’incredibile.   Tanto è vero che chi, dalla scuola, ne riferiva ha sentito l’istintivo bisogno di giustificarsi, di spiegare che era difficile, se non impossibile, notare qualcosa, perché la ragazza, comunque, era molto chiusa e poi, diciamolo, era di corporatura un po’ forte e come se non bastasse nascondeva il suo stato con camicioni abbondanti e vestiti extra large: tutte scuse che appaiono, a prima vista, abbastanza penose.  Il fatto è che a scuola, con tutta evidenza, quella studentessa non la vedeva nessuno.  Non la guardavano neanche, come fosse stata invisibile.   Non perché fosse una immigrata, per carità: era solo una studentessa tranquilla, non dava noia a nessuno, studiava con discreto profitto e subiva le interrogazioni senza lagnarsi (la hanno chiamata alla cattedra anche un’ora prima del parto e non le è neanche saltato in testa di dire “no, per favore, sto male”), perché mai avrebbero dovuto guardarla?

È da qualche anno, lo devo ammettere, che ho perso i contatti diretti con la scuola.  So che i miei ex colleghi in cattedra sono parecchio affezionati, da un po’, al tema della loro professionalità, intendendo per tale la specificità della propria funzione, come a dire – suppongo – la capacità di trasmettere ai giovani un corpus specifico di conoscenze, e può darsi che in questo tipo di competenza sia compresa la capacità di chiudere gli occhi su quanto esula da tale dimensione.  Nessun insegnante, naturalmente, si spingerebbe fino a negare che sia necessario e opportuno un certo dialogo con gli studenti, che possono aver bisogno di un consiglio o di una guida anche al di fuori dell’ambito strettamente definito dai programmi, ma è difficile sfuggire all’impressione che questo tema oggi interessi meno di una volta.  E comunque anche il momento del dialogo, mi dicono, viene spesso professionalizzato, affidandolo a consulenti speciali, allo psicologo di istituto, se c’è, o allo “sportello di ascolto”, una entità cui i giovani possono rivolgersi nella certezza di avere il sostegno di cui abbisognano salvaguardando, al tempo stesso, la propria privacy e quella dei loro insegnanti.   Nello specifico, non sembrerebbe proprio che nulla di tutto questo sia entrato in azione, ma forse è stato un caso particolarmente sfortunato.  Presidi e professori, intervistati sulle pagine locali dei quotidiani nei due giorni due in cui la vicenda ha fatto notizia, non hanno mancato di insistere sulle difficoltà del proprio compito, sul fatto che l’istituzione scolastica è sempre più spesso lasciata sola, sulla drammatica scarsità di risorse che l’affligge e costringe i dirigenti meglio intenzionati a fare a meno dei consulenti, chiudere gli sportelli e buona notte a tutti quanti.  Sarà indubbiamente vero e, d’altronde, sapevamo già in quali pessime acque galleggi la scuola pubblica, visti anche gli attacchi che continuamente subisce a opera dei suoi molti nemici (tra i quali, sarà un caso, gli ideologi del “diritto alla vita” sono in prima fila).  Tuttavia…  tuttavia resto convinto che per non riuscire ad accorgersi che tra le creature che ti trovi di fronte dal lato opposto della cattedra una è al nono mese di gravidanza, sia necessario uno sforzo davvero particolare, una vocazione all’indifferenza che non si vede come possa permettere a chi ne è afflitto di insegnare checché a chicchessia.   Con amici di questo genere, come si dice, che bisogno si ha di nemici?


21.05.’06