Sembra che a Napoleone – quello autentico, dico, quello che, pur essendo
un filino più basso del Presidente del Consiglio in carica, è riuscito
comunque a pubblicare un paio di codici in più – non piacesse il pollo.
Lo considerava un cibo monotono. Fu per questo che il marchese
di Cussy, dotto buongustaio dell’epoca, scommise con lui che glielo avrebbe
servito due volte al giorno per un anno, variando costantemente il sapore
della pietanza e, anche se le cronache non sono precisissime in merito,
pare che ci sia riuscito. Commenta Alberto Denti di Pirajno, dalla
cui opera fondamentale, Il gastronomo educato (1950), attingo la notizia,
che quello del Bonaparte “folgorante attraverso l’Europa, inseguito dal
marchese di Cussy che rimescolava nelle pentole, girava spiedi o faceva
saltare padelle sui fornelli deve essere stato uno dei più interessanti
spettacoli della prima metà del secolo decimonono.”
Di tutta questa attività, che io sappia, ci
è restata solo la ricetta del pollo alla Marengo. Ma l’immagine
mi si è affacciata alla mente quando mi è capitato di assistere, sere fa,
a una delle trasmissioni televisive in cui, in nome della difesa del patrimonio
zootecnico nazionale e dei posti di lavoro correlati, si è fatto il disperato
tentativo di convincere gli italiani di come, virus dell’aviaria o no,
il pollo rappresenti un alimento sicuro, che soltanto uno stolto allontanerebbe,
oggi, dalla propria tavola. Il conduttore, per la circostanza, non
aveva badato a spese e aveva convocato in studio, oltre al ministro competente,
a un certo numero di esperti e ai responsabili delle organizzazioni del
settore – tutta gente, ministro a parte, di sicura competenza – anche
un paio di cuochi, completi di berrettone bianco e dell’intero armamentario
di cucina, e ogni tanto, dopo aver introdotto un eminente veterinario che
assicurava che le possibilità che quel virus potesse passare dal volatile
a chi se ne ciba erano infinitesimali, o aver avuto dal presidente della
Federpolli la garanzia che le misure adottate per eliminare il contagio
sarebbero state approvate da don Ferrante in persona, gli chiedeva: “E
voi, che cosa avete preparato di bello?” “Pollo al madera, illustrissimo”
gli rispondevano i due maitre all’unisono, mentre la telecamera zoomava
sulle loro creazioni, e poi pollo al curry, involtini di pollo, pollo ripieno,
pollo in salsa, eccetera eccetera. “Hmm, che profumino!” commentava
estasiato il tipo, inalando vistosamente a froge aperte, e poi ripassava
la parola al ministro.
Non so quanti spettatori siano stati convinti
dall’esibizione a rimettere in tavola il pollo. Le dichiarazioni
degli esperti erano ragionevoli – anche se un po’ troppo ottimistiche
per uno spirito sospettoso, – il ministro perorava la causa con insolita
sobrietà e i pezzi grossi erano unanimi e, per una volta tanto, concordi
nel lodare se stessi e il proprio operato, ma ci vuol altro, naturalmente,
per calmare le apprensioni di tutto un paese. Il pubblico che da
mesi sente i media discettare di epidemie e pandemie, sa che il contagio,
nonostante tutte le precauzioni, dall’Estremo Oriente è riuscito ad arrivare
in Puglia e Sicilia, non ignora che in itinere il virus ha fatto, comunque,
un certo numero di vittime umane – magari poche, sul piano statistico,
ma contro la paura la statistica non ha corso – e ha capito benissimo,
perché qui nessuno è scemo, che, allo stato delle conoscenze, di garanzie
atte ad escludere qualche sua micidiale mutazione non ne può dare nessuno.
E poi, insomma, quella di lavarsi frequentemente le mani è un’ottima
abitudine, a prescindere dalle emergenze sanitarie, ma se uno si sente
raccomandare di ricorrere all’acqua e sapone ogni volta che gli capita
di toccare un uovo, be’, è normale che verso le uova cominci a covare
un minimo di diffidenza. In questa situazione, naturalmente, tutto
fa brodo e il ricorso alle tecniche del marchese di Cussy per spiegare
che l’alimento contestato è, per sua natura, estremamente versatile e
ha, come se non bastasse, un ottimo profumo può certo servire a qualcosa,
ma non lo si direbbe un argomento di grandissimo potere suasorio. Il
pollo, nell’uso alimentare corrente, non è la base di preparazioni raffinate,
ma un vecchio amico nel trantran quotidiano della cucina, e quando ci si
sente traditi dai vecchi amici la reazione di ripulsa è sempre radicale.
Io, personalmente, non ho difficoltà a confessare che, per quanto abbastanza
ghiotto di pollo, non ne tocco uno da mesi. E non perché disponga
di particolari elementi che mi confermino la pericolosità del consumo:
so benissimo che potrebbe trattarsi dell’ennesima bufala della stampa,
o semplicemente di un caso di cattiva informazione. Ma in questo
mondo, ormai, se un fatto è di natura puramente mediatica resta comunque
un fatto e non ce se ne può sbarazzare addebitandone le conseguenze all’ingenuità
di un pubblico che non ha capito bene il messaggio o se ne è lasciato impressionare.
Se la notizia è stata data in modo scorretto, bisognava pensarci
prima: adesso, una volta scattato il corto circuito allarmismo-paura, c’è
ben poco da fare e solo il tempo, quel grande epidemiologo, potrà riportare
i gallinacei sulle mense delle grandi masse. Quella di riuscire a
invertire il processo spiegando alla gente che non ha capito un tubo
e di non fare, per piacere, tante storie è un’altra scommessa che nemmeno
il vero Napoleone, per non dire delle sue imitazioni più alte di oggi,
avrebbe potuto vincere.
19.02.’06