Quando, un paio di ere geologiche fa, muovevo i primi
passi sul terreno minato della politica, la ricorrenza del 25 aprile non
era, almeno nel mio giro, tra le più popolari. Non che frequentassi,
dio ne scampi, ambienti nostalgici o qualunquisti, ma era tutta gente cui,
in un modo o nell’altro, piaceva scherzare e se la ridevano di gusto su
Sua Eccellenza che, salito sul palco e inchinatosi a Sua Eminenza, esaltava
i valori della Resistenza (era questo, in realtà, un epigramma di Ennio
Flaiano: si intitolava, se ben ricordo, “Tutto da rifare”) o cantavano
quella canzone su un anonimo ex resistente, che, avvezzo negli anni della
lotta a portare al collo un fazzoletto rosso, viene convinto, per la ricorrenza,
a mettersene uno tricolore e già la cosa gli secca, ma quando vede tra
i celebranti non soltanto l’allora ministro Andreotti, ma anche il suo
principale, quello che l’ha da poco licenziato, “uno schifoso liberale
anche lui tricolorato”, del bianco e del verde si sbarazza subito e ritorna
al rosso originario, a costo di farsi dare del “cinese” e farsi
chiamare “disfattista” e se non capite il perché dell’ultimo aggettivo
vuol dire che siete troppo giovani per ricordare gli stereotipi verbali
in uso nella sinistra fin verso la metà degli anni ’60. Con quei
termini, peraltro, fu immediatamente bollato l’autore dei versi, che era
Ivan Della Mea, a dimostrazione del fatto che i tempi stavano, sì, cambiando,
ma solo fino a un certo punto.
Il guaio, ammettiamolo
pure, è che la festa del 25 aprile ha sempre avuto un carattere leggermente
ambiguo, collocata com’è a mezza via tra la rievocazione di una lotta
popolare largamente spontanea e il momento istituzionale e celebratorio.
Che è poi, in fondo, la stessa ambiguità della nostra Repubblica,
della quale è facile dire che nasce dalla Resistenza, ma non è difficile
individuare i tratti e le caratteristiche che con la Resistenza hanno davvero
poco a che fare. E per essere franchi del tutto, va detto che la
stessa lotta partigiana non è stata esente da un minimo di ambiguità, giocata
come fu su una sottintesa duplicità di programmi, in cui l’obiettivo della
liberazione nazionale e della rigenerazione democratica poteva (o non poteva,
a seconda degli interlocutori) sovrapporsi a un sogno di palingenesi sociale
che avrebbe richiesto altri e più incisivi provvedimenti. Insomma,
tutto dipende, come sempre, da quello che nell’offerta ideologica si vuole
prendere o rifiutare e, con tutto il rispetto dovuto al Presidente Ciampi,
non è detto che la sua presenza – per non dire di quella di altre, meno
rispettabili, figure istituzionali – rappresenti davvero un valore aggiunto
alle celebrazioni di domani. Non credo siano in pochissimi quelli
che preferirebbero che il Presidente, per una volta, se ne stesse a casa
e in piazza, magari, si facesse rappresentare dalla piccola Yuki.
D’altra parte… d’altra
parte la vittoria sul fascismo è cosa che va ricordata e su cui è lecito
far festa. Non perché il fascismo, come si è costituito storicamente,
con la sua ideologia da quattro soldi e le sue lugubri ritualità, rappresenti
ancora un pericolo. Quella cosa lì – lo sappiamo – è morta
e sepolta, i suoi epigoni se ne sono sbarazzati come di un peso molesto
e persino la nipote del duce, nonostante i tristi figuri con cui politicamente
si accompagna, quando vaneggia sulla cara figura del nonno fa più tenerezza
che paura. Ma il fatto è che il fascismo come programma politico
non può essere ridotto ai gagliardetti e ai saluti romani e nemmeno alla
organizzazione gerarchica e autoritaria dello stato, al delirio nazionalista,
alle tentazioni coloniali e alla vergogna del razzismo. Il fascismo
è un progetto generale di interferenza nella dialettica democratica, concepito
e realizzato al fine specifico di assicurare il predominio di classe, di
garantire a chi lo detiene il pacifico godimento del capitale e di fare
in modo che i ceti subalterni stiano al loro posto e i lavoratori altro
non facciano, appunto, che lavorare. In quanto tale, ha sempre dimostrato
una straordinaria capacità di adattamento e mimetizzazione. È un
fenomeno politico proteiforme, che non soffre di remore verbali e può benissimo,
se lo richiedono le circostanze, simulare senza vergogna il linguaggio
della democrazia. In effetti, oggi si presenta indifferentemente
nei panni di chi esalta l’unità nazionale e in quelli di chi vuole a ogni
costo la devolution, riesce a farsi alfiere al tempo stesso del pietismo
cattolico e dell’edonismo reaganiano, esalta la tradizione e si
inebria di ostentata modernità. Alla fine, però, nonostante questi
panni sguaiati e variopinti che neanche la livrea di Arlecchino, nella
volontà espressa di negare i valori della conoscenza e della decisione
in comune finisce sempre per rivelare, sotto il belletto, la sua faccia
eternamente feroce.
Ora, non vorrei suonare
retorico affermando che contro questo fascismo, oggi come ieri, siamo chiamati
a combattere. Ma è poco ma sicuro che è contro di noi che questo
fascismo, ieri come oggi, combatte. E il 25 aprile del 1945 rappresenta
comunque un momento in cui il suo progetto storico ha subito, momentaneamente,
uno scacco. Basta vedere come questa celebrazione continui a far
girare le palle, dopo sessant’anni, ai nostri governanti, che pure, quanto
a faccia di bronzo e a capacità di far finta di niente, sono praticamente
imbattibili.
Ed è questo, in definitiva, il miglior motivo per continuare
a festeggiarla noi.
24.04.’05