Una questione di efficienza

La caccia | Trasmessa il: 11/14/1999



Il nostro è proprio uno strano paese.  Per lo meno è l’unico, a quanto mi risulta, in cui è possibile che i due rami del parlamento lavorino per quasi un anno, previo un accordo solenne, ancorché controverso, tra maggioranza e opposizione, per varare una riforma della carta costituzionale che affermi, sentite un po’, che il processo – nel senso del  processo penale, quello che si fa nei tribunali –  dev’essere giusto.  E la stranezza, naturalmente, non consiste nell’affermazione in sé, perché nessuno, neanche tra i nostri legislatori, desidera un processo che giusto non sia (e se per caso lo desiderasse non potrebbe certo ammetterlo in pubblico), ma nel fatto che si sia sentito il bisogno di pronunciarla a quel livello e in quel testo, come se la Costituzione della Repubblica Italiana, per qualche straordinaria ottusità o dimenticanza dei suoi estensori, non prevedesse quel fondamentale principio: ovvero, come se quella “giustizia” che, stando all’art. 101, viene amministrata in nome del popolo da giudici soggetti soltanto alla legge, fosse stata, finora, qualcosa che, pur chiamandosi in quel modo, con il fatto che i processi fossero giusti non aveva nulla a che vedere.
        Altrettanto strano, me lo concederete, è il fatto che nessuno tra i molti magistrati che hanno sentito il bisogno di commentare questa pronuncia, abbia ritenuto necessario rigettare l’implicita critica che l’adozione costituzionale di una norma del genere getta sull’operato del loro ordine.  In fondo, anche se nessuno l’ha detto apertis verbis, se si è sentito il bisogno di scrivere a chiare lettere che i processi devono essere giusti, vuol dire che qualche dubbio sul come li si sono condotti finora nella testa di qualcuno è allignato.  E infatti, com’era logico, i magistrati cui la nuova formulazione dell’art. 111 non è affatto piaciuta sono parecchi, e non tra i meno influenti.  Eppure non ne ho trovato uno, sui giornali o altrove, che abbia detto qualcosa come “ma fatemi il santo piacere, i processi che ho celebrato o istruito io, finora, dal punto di vista della giustizia andavano benissimo”.   Macché.  Hanno detto tutti che la nuova formula esprime dei “principi generali assolutamente condivisibili”, ma che a loro non piace lo stesso, perché renderà impossibile indagare (e quindi celebrare processi) su eventi e fenomeni su cui indagare bisogna.  Per il procuratore di Milano Ambrosio, secondo il “Corriere” dell’11 novembre, si tratta di una “legge pericolosa e oscura” che “segnerà la fine di Mani pulite”.  Per il suo collega palermitano Grasso, stando alla “Repubblica” del giorno dopo, d’ora in poi “i killer” semplicemente “la faranno franca”.  E anche se non si tratta, alla lettera, di parole dei due magistrati, ma dei titoli redazionali apposti alle loro dichiarazioni, danno bene l’idea del tono generale cui esse sono improntate.
        Il fatto è che la riforma non si limita a costituzionalizzare il principio per cui il processo dev’essere giusto.  Lo sviluppa in una serie di applicazioni, specificando, per esempio, che il contradditorio dovrà avvenire in condizioni di parità tra accusa e difesa, per cui sarà necessario che l’accusato sia informato “della natura e dei motivi dell’accusa” e “nel più breve tempo possibile” e questo è sembrato particolarmente disdicevole al dott. Ambrosio, per cui “in questo modo rischiamo di tornare indietro di secoli”.   E prevede che i testimoni a carico, pentiti compresi, oltre a poter riferire solo di fatti di cui abbiano conoscenza diretta, siano presenti in contradditorio, ed è questo che dà il via alle cupe previsioni del dott. Grasso.  Avranno le loro ragioni ambedue, ma è un po’ come dire che la giustizia è una bella cosa e che la parità tra accusa e difesa non si discute, ma che se l’accusa non ha qualche potere in più, be’, allora come si fa a condannare?   So che non tutti gli ascoltatori condividono il mio punto di vista sui problemi della giustizia (uno ha persino telefonato durante l’Abbonaggio spiegando che era il mio atteggiamento antigiudici a impedirgli di rinnovare l’abbonamento a Radio Popolare), ma ammetterete che di magistrati che piuttosto che in termini di giustizia preferiscono ragionare in termini di efficienza, identificando, per di più, l’efficienza con i propri poteri, è lecito, per lo meno, diffidare.
        In ogni caso, non tutto è perduto per chi condivide le loro preoccupazioni.  Le nuove norme sono espresse nella Costituzione, il che è una cosa importante, ma andranno rese esecutive da apposite leggi ordinarie.  I dettami della Costituzione sono, si sa, eminentemente programmatici, nel senso che ad essi deve ispirarsi la legge, ma non sono immediatamente esecutivi.  Ci mancherebbe altro.  Capirete: c’è scritto anche che l’Italia ripudia la guerra, che la scuola privata non deve comportare oneri per lo stato, che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata al suo lavoro e comunque sufficiente ad assicurargli un’esistenza libera e dignitosa e che chi è inabile al lavoro, per infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, ha diritto che gli siano assicurati mezzi adeguati alle sue esigenze di vita.  Sono tutti programmi, programmi cui solo in seguito si cercherà di adeguarsi o – se del caso – di non adeguarsi.  E il fatto che i nostri deputati e senatori non siano riusciti a formulare i principi del giusto processo sotto forma di legge ordinaria e siano ripiegati solo in secondo tempo sull’ipotesi di legge costituzionale, non fa molto sperare in bene.  Vedremo come andrà a finire, ma, a conforto dei giustizialisti in ascolto, io non escluderei affatto che anche da questo punto di vista la nostra Costituzione possa ridursi a essere la versione togata del libro dei sogni.