Una patente informatica

La caccia | Trasmessa il: 12/12/2010


    Una patente informatica

    Non sono mai stato violento, l'età avanzata mi mette al riparo dalla lussuria e, di solito, riesco a tenere a freno l'ira. Ho sempre pensato che i vizi da cui sono affetto, quelli che, a tempo debito, mi spediranno dritto all'inferno siano degli altri. Dei vizi meno drammatici, forse, un po' ridicoli, da un certo punto di vista, ma nondimeno altrettanto nocivi degli altri: la gola, per esempio, che pur portando con sé la sua punizione, sotto forma di alti tassi di glicemia e di colesterolo, nuoce più all'anima che al corpo, o quella forma attenuata di superbia che è la vanità, nel senso dell'eccessivo compiacimento di sé, o forse l'accidia, che ho sempre assimilato, tra me e me, alla pigrizia, anche se so che non è così semplice, ma in cosa consista esattamente l'accidia – per essere proprio sincero – non sono mai riuscito a capirlo. In ogni caso, mi sembra che ce ne sia abbastanza. I vizi, secondo Aristotele e Tommaso d'Aquino, derivano dalla assiduità di certi atti che creano nel soggetto che li compie una sorta di “abito”, di inclinazione e non posso negare che, nel corso degli anni, di cattive inclinazioni del genere ne ho assunte parecchie.
    Solo da poco, tuttavia, mi sono accorto che tutto questo è robetta. Il vero vizio che mi consuma, il piano inclinato rotolando giù per il quale giungerò all'inevitabile dannazione, o, per ben che vada, a passare chissà quanti millenni con le palpebre cucite sulla seconda cornice del purgatorio, è quello dell'invidia. Sono sempre di più le occasioni in cui mi sorprendo a fissare i miei simili con occhio malevolo, desiderando di essere al loro posto e augurando loro, senza misericordia, di essere nel mio. Che mi rodo di bile pensando alla loro fortuna e mettendola a confronto con le mie disgrazie. Che li invidio, insomma, nel senso più pieno e negativo del termine.
    Intendiamoci. Degli altri non invidio le ricchezze, la salute, i successi amatori o simili. Non sono – lo so – cose per me. Quello che non riesco proprio a sopportare è la loro disinvoltura informatica. La facilità con la quale smanettano sulla tastiera e deambulano per il web.
    Capirete. Viviamo in un mondo in cui se non ti muovi agevolmente in quell'ambito sei irrimediabilmente tagliato fuori. Le informazioni utili alla vita di tutti i giorni ti arrivano, ormai, prevalentemente via mail e i dati su cui lavorare te li cerchi in rete. I rapporti con le più varie autorità pubbliche, dalla dichiarazione dei redditi alla richiesta dei più vari certificati, passano ormai attraverso quella modalità. Quando scoprono che per comprare un biglietto del treno o dell'aereo vai ancora in agenzia, tutti ti guardano con commiserazione, facendoti capire che ti considerano assai meno di un troglodita. Infiniti messaggi pubblicitari ti esortano a metterti in rete per pagare la bolletta del gas, o ricevere quella della luce, o acquistare un ergometro a pedali in venti comode rate. Persino quando ascolti la radio – la nostra radio, dico – ecco che i conduttori non fanno che invitarti a visitare il loro sito o a postare un commento sul blog o a consimili pratiche radiofonicamente improprie. Persino noi della “Caccia”, gli dei ci perdonino, abbiamo un sito, anche se ci procura più grattacapi che altro e cerchiamo di parlarvene il meno possibile.
    Bene. Tutto questo presuppone un mondo ordinato e tecnologicamente stabile in cui il soggetto, quando ne ha bisogno, si siede al suo computer, lo accende, si collega alla rete e (magari dopo essersi sgranchito le dita con qualche partita di solitario) comincia a navigare, attendendo sereno ai suoi traffici e alle sue incombenze. Ed è questo, più o meno, che fanno, o sembrano fare, tutte le persone normali, i miei amici e colleghi. Nessuno di loro sembra incontrare, nel mondo dell'informatica, la minima difficoltà.
    Io no. A me, per un motivo o per l'altro, non ne va bene una. Se premo il tasto dell'accensione, il computer può accendersi... o anche no. Se si accende, può funzionare o andare subito in blocco. Se funziona, devo aspettare un tempo esagerato (saranno, in realtà, un paio di minuti, ma possono sembrare una eternità) che l'apposita icona mi segnali l'avvenuto collegamento con l'ADSL. Non succede sempre, eh, ma in compenso so che, se si stabilisce, la linea se ne può andare da un momento all'altro, senza preavviso e senza motivo apparente. In questi casi, oltre a una telefonata angosciata all'amico Tommaso, che di queste cose si intende, credo, più di chiunque altro, non mi resta che l'espediente altamente tecnologico di spegnere il modem e riaccenderlo: dopo di che la linea forse tornerà, ma solo forse. Due mesi fa, il collegamento è partito definitivamente: il tecnico che ho convocato e che si è presentato dopo qualche giorno mi ha detto che non c'era altro da fare che cambiare il modem. L'ho cambiato e la linea ha retto per tre giorni: poi se ne è andata di nuovo e io ho ripreso la prassi dello spegni e riaccendi. Or sono tre settimane, mentre ero a metà di un pezzo difficile, il maledetto oggetto si è impallato una volta per tutte e, spegni e riaccendi, accendi e rispegni, ha continuato a restare tale. Niente da fare, mi hanno detto al laboratorio cui mi sono prontamente rivolto: bisognava riformattarlo e poi mi arrangiassi. Lo hanno riformattato e per fortuna che ci ha pensato l'amico Tommaso a reinstallarmi i programmi, se no a quest'ora ero ancora qui che mi arrabattavo con carta e penna.
    Al momento, tutto funziona abbastanza regolarmente, ma mentre lavoro sento vibrare attorno a me un'aura minacciosa di precarietà. Sono nervoso e, pur sapendo che non serve a niente, continuo a tener d'occhio sospettosamente icone e lucine, come nella prospettiva di un imminente disastro. Non riesco davvero a capire i motivi di questa situazione: inetto sono inetto, lo so, ma per quanto grande sia la inettitudine non dovrebbe avere a che fare con l'operazione di premere un tasto. Può essere casualità, malocchio o semplicemente destino: kismet, come direbbe un eroe delle Mille e una notte. Più che nelle Mille e una notte, tuttavia, mi sembra di vivere in quell'atto unico di Pirandello in cui il protagonista chiede di essere insignito della patente di iettatore (nel 1954 ne ha dato una interpretazione favolosa Totò in Questa è la vita di Luigi Zampa). Sì, lui si riprometteva dei fini di lucro a me estranei, perché voleva farsi pagare dalle possibili vittime e invece l'unico a essere danneggiato da questa sindrome perversa resto io, tuttavia sento che una bella patente di sfiga informatica mi è in un certo senso dovuta.
    Poi chiedo agli amici e ai conoscenti come se la passano con i loro computer e loro mi dicono che sì, qualche problemino ogni tanto si presenta, ma nel complesso se la cavano. Non si accostano all'apparecchio con sospetto e ripugnanza, come ormai faccio io. Non hanno l'atteggiamento di chi, in treno, si tiene sempre nelle prossimità dello sportello per buttarsi giù in caso di scontro frontale. Non vedono nel modem il loro peggiore nemico e in Bill Gate un emissario diretto del Maligno preposto alla loro perdizione. C'è da stupirsi se li invidio? Se mi macero nell'invidia e mi sento tentato, a volte, di fare a pezzi quei loro apparecchietti disciplinati che non si impallano mai? Sì, è un peccato, lo so, un atteggiamento negativo e dannoso che non mi può procurare che guai. Ma ormai sto rotolando lungo il piano inclinato e non riesco a fermarmi. Spero solo che all'inferno non ci siano computer.
12.12.'10