Mi perdoneranno gli ascoltatori, soprattutto
quelli legati a una certa appartenenza partitica, se sfioro un argomento
di cui, una volta uscito di attualità, avrebbero preferito non sentir più
parlare. Vedranno che non ce l’ho con loro. Ma il fatto è
che fino a domenica scorsa non mi era capitato di realizzare come l’ormai
leggendario “abbiamo una banca” di Piero Fassino potesse riflettere,
oltre che l’ingenuità del politico che parla al telefono senza darsi pensiero
del maresciallo in ascolto, un uso linguistico tipico del Piemonte. L’ho
appreso da una intervista in quella data dell’onorevole Violante, torinese
– nonostante il cognome – al pari del segretario del suo partito, che
ha spiegato che dalle sue parti è affatto normale servirsi della prima
persona plurale anche in circostanze in cui, altrove, si preferirebbero
altri numeri e altre persone e ha illustrato il concetto citando, come
è suo uso, se stesso, che, parlando alla figlia in occasione del suo matrimonio
avrebbe usato l’espressione “abbiamo un bel marito,” anche se era ovvio
che il marito, bello o brutto, l’aveva solo lei. L’ipotesi è stata
poi ripresa e ampliata con altri esempi da un ampio articolo del “Corriere
della sera” di mercoledì 18 u.s., che cita Vittorio Emanuele II al suo
arrivo in Roma redenta (“Finalment ai suma: era stato un viaggio
lungo e faticoso) e Pietro Badoglio alla vigilia di Caporetto (“L’uma
tutti giugà a musca cieca”, per dire che tra i vari generali
dello stato maggiore c’era stata una certa mancanza di coordinamento).
Nonostante
l’autorevolezza delle fonti, confesso di non essere del tutto convinto.
Vedete, senza essere esattamente piemontese, ho abbastanza ascendenti
e congiunti originari di lì e non ho mai notato una loro particolare propensione
a un uso improprio o allargato del “noi”. D’altro canto, so che
la sintassi italiana corrente lo legittima (e non solo in Piemonte) in
più casi, come quello del “noi maiestatico”, impiegato da sovrani e pontefici
fino a tempi recenti (l’ultimo papa a servirsene in pubblico fu Paolo
VI e credo lo si usi ancora alla corte di Londra) o del “plurale di autore”
(o “di modestia”) in cui chi racconta una storia o svolge un’argomentazione
si associa idealmente ai propri lettori, a conferma del carattere interpersonale
di quelle attività. Qualcosa del genere, probabilmente, intendono
le infermiere in ospedale quando ti chiedono “Come stiamo oggi?” e aggiungono:
“E adesso giriamoci a pancia in giù perché dobbiamo fare l’iniezione.”
Insomma,
di esempi potrebbero essercene tanti. Quelli del “Corriere”, in
realtà, sono i meno probanti, perché la frase di Vittorio Emanuele si può
facilmente riferito a tutto il seguito dell’augusto viaggiatore e quella
di Badoglio contiene un plurale assolutamente normale, volendo il
maresciallo esprimere il concetto per cui certe responsabilità non erano
soltanto sue, ma anche e soprattutto di altri.
In realtà,
nell’italiano e nei suoi dialetti il “noi” è un pronome piuttosto infido.
Il suo uso , diciamo pure, “normale” quello finalizzato a indicare
un’azione compiuta da una pluralità di soggetti che comprenda il parlante,
è solo il caso particolare di una funzione più ampia. Chi lo utilizza,
re e pontefici a parte, opera certamente una inclusione, associa degli
altri soggetti alle proprie azioni, ma lo fa a vario titolo, non solo per
indicare identità o compagnia. Può voler esprimere semplicemente
una certa qual comunanza di intenti o di situazione, o un qualsiasi altro
rapporto significativo. Come a dire che l’ “abbiamo un bel marito”
di Violante alla figlia (o, secondo un’altra versione, della figlia a
Violante) vuol dire semplicemente che lei, la figlia, ha trovato un degno
sposo e che lui, il padre affettuoso, ne è lieto. Anche Fassino,
ovviamente, non aveva pretese di proprietà, voleva soltanto dichiararsi
contento per l’avvenuta acquisizione di una banca da parte del suo interlocutore,
ma siccome il problema politico sta tutto nella esistenza o meno di un
legame privilegiato tra i due, la distinzione serve davvero a poco.
C’è un punto,
invece, che può valere la pena di sottolineare. Chi dice “noi”
lo fa per includere, certo, ma questo non significa che l’incluso debba
di necessità consentire. Io, per esempio, quando sento frasi del
tipo di “noi italiani siamo andati in Iraq per difendere la pace” non
sono assolutamente d’accordo, nel senso che, pur essendo indubbiamente
italiano (e quindi compreso nel “noi”) in Iraq non ci sono andato,
ritengo che non ci si debba andare e dubito assai che chi c’è andato avesse
quel fine. Analogamente, pur pencolando, in mancanza di meglio, dalle
parti della stessa coalizione dell’onorevole Fassino, tengo fermamente
a dichiarare di non avere una banca e di non essere neanche contento
del fatto che ce l’abbia (o non ce l’abbia) Consorte. Non ho niente
contro le banche in sé, conosco delle degnissime persone che ci lavorano,
suppongo che nell’attuale sistema economico svolgano una funzione indispensabile,
ma mi sembra che il modo con cui le si gestisce di solito in Italia giustifichi
ad abundantiam la vecchia massima di Bertolt Brecht su come sia
un delitto più grave fondarne una che svaligiarla.
Questi saranno, forse, problemi miei.
Ma, di fatto, non è difficile verificare come una delle attività
preferite dei politici di ogni ordine e grado – uno degli strumenti più
comunemente impiegati per imporre, comunque, un potere sugli altri – è
proprio quello di dire “noi”, di costruire delle identità includenti.
Noi italiani, noi democratici, noi liberali, noi tutti… E
siccome la difesa della propria identità (e dei criteri per definirla)
resta uno dei fondamenti della democrazia, bisogna sempre essere pronti
a chiamarsi fuori. Date retta: la prossima volta che vi capiterà
di sentire un’espressione del genere, rispondete senza esitare:
“Noi chi?” (C.O.)