Un popolo di analfabeti

La caccia | Trasmessa il: 12/04/2011


    Un popolo di analfabeti

    Non capiamo più la nostra lingua. La notizia viene sparata con una certa drammaticità in prima pagina dal “Corriere” di lunedì scorso, e confermata da un ampio articolo a pagina 23. Sette italiani su dieci, ne afferma già il titolo, non capiscono la lingua. Per la precisione, il 71% della popolazione si trova “al di sotto del livello minimo” di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà e solo il 20% possiede “le competenze minime 'per orientarsi e risolvere, attraverso l'uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana'”. Bastano queste due percentuali, naturalmente, “per fare scattare l'emergenza sociale”, visto che “il dominio della propria (sottolineato propria) lingua è un presupposto indispensabile per lo sviluppo culturale ed economico dell'individuo”.
    L'articolo è firmato da Paolo Di Stefano, ma queste considerazioni non sono sue. Sono ricavate dall'intervento svolto da Tullio De Mauro al convegno dedicato il giorno precedente dal Consiglio regionale toscano al tema “Leggere e sapere: la scuola degli italiani”. E per quanto drammaticamente siano presentate non costituiscono neanche una gran novità: articoli di questo tipo, di fatto, appaiono sulla
    stampa quotidiana o settimanale con cadenza abbastanza regolare, accompagnati di solito da interviste o citazioni dello stesso De Mauro, che da quando ha pubblicato nel 1963, una (troppo) famosa Storia linguistica dell'Italia unita, viene considerato l'unico esperto disponibile dell'italiano parlato. Ai giornalisti evidentemente piace questa idea di un popolo di analfabeti, in cui l'uso corretto della lingua nazionale resta limitato a una percentuale ridotta dei parlanti. È la manifestazione moderna di un atteggiamento che sin dalle origini ha caratterizzato la nostra cultura e chi la fa propria si sente ipso facto partecipe dell'élite di quanti sono autorizzati a bacchettare, per un motivo o per l'altro, i propri simili. Se poi lo si può fare appoggiandosi all'autorità di un maestro riconosciuto, tanto meglio.
    Resta il fatto, tuttavia, che dire che sette italiani su dieci non capiscono la nostra lingua, semplicemente, non è vero. Prescindendo dagli alloglossi, dagli immigrati di arrivo recente e dai membri di comunità particolarmente isolate, gli italiani, nella grande maggioranza, se la cavano abbastanza bene. Parlano e capiscono quella che è, con tutta evidenza, una lingua comune, se ne servono nelle relazioni reciproche, entrano in contatto attraverso di essa con il mondo delle comunicazioni di massa. Non leggono molti libri, i nostri connazionali, né molti periodici, ma questo è un altro discorso e qualcuno, giudicando dal livello di quanto si pubblica in giro, potrebbe essere tentato di dargli ragione. In ogni caso, l'esperienza di chi, parlando italiano, in certe parti d'Italia non viene capito ed è anzi scambiato per uno straniero – esiste, in merito, una certa aneddotica, per lo più ottocentesca – appartiene definitivamente al passato.
    Tanto è vero che nemmeno l'articolo di cui ci stiamo occupando afferma niente di simile. Che sette italiani su dieci non capiscano la nostra lingua lo dice nel titolo: poi nel testo si occupa decisamente d'altro. Parla di “livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà”, il che lascia aperto il notevole problema di come definire quel “livello minimo” e quella difficoltà media. Ricorda le polemiche di Pasolini di quarant'anni fa sulla decadenza dei dialetti, che con la questione hanno ben poco a che fare, definisce “analfabetismo di ritorno” il fatto che “il 33% degli italiani, pur sapendo leggere, riesca a decifrare soltanto testi elementari” (e di nuovo si vorrebbe sapere cosa si intende, in questo contesto, per “elementare” e chi lo definisce per tale) e conclude che “pare” che “la conoscenza delle strutture grammaticali e sintattiche sia pressoché assente persino presso i nostri studenti universitari”, come se la conoscenza di quelle strutture fosse qualcosa di diverso della capacità di parlare una lingua. Non afferma, insomma, che nel bel paese del sì non si parli o non si comprenda l'italiano: sostiene, al massimo, che lo si parla “male” e che quello corretto parlato da una minoranza colta fa fatica a venire compreso. Il che potrebbe essere considerato una riproposizione di quel purismo che affligge da secoli la nostra letteratura.
    È strano però. La linguistica dovrebbe avere delle funzioni puramente descrittive, lasciando – se mai – ad altre discipline ogni velleità normativa. Pure non mancano mai i “grandi studiosi” che di fronte alla ricchezza creativa delle prassi linguistiche, al loro libero proliferare nell'esperienza quotidiana di tutti noi, perché anarchico, notoriamente, è il pensiero, e anarchica è la lingua che ne rappresenta la pubblica manifestazione, cercano disperatamente di riportarle ai modelli di un uso “corretto”, senza rendersi conto che la correttezza cui tendono può essere definita, al massimo, da fattori extralinguistici – la pratica della scuola, la tradizione letteraria... – e non hanno quindi alcuna natura linguisticamente privilegiata. Se sette italiani su dieci non capiscono la lingua del “Corriere della sera” e di Tullio De Mauro, ma si capiscono benissimo tra loro, non è detto che siano loro ad avere torto.
    Vedete, io, quando mi trovo nella necessità di definire, in una bibliografia, in un risvolto, in una nota, il campo dei miei interessi, scrivo di solito che mi occupo di “problemi di ideologia della lingua”. È una definizione come un'altra, ma forse dovrei decidermi a cambiarla, perché rischia di essere al tempo stesso troppo generale –
    qualsiasi fatto ideologico si esprime in forma linguistica ed è quindi una manifestazione di “ideologia della lingua” – e troppo specifica, perché decidere di occuparsi solo dei fenomeni che hanno a che vedere con la parola sarebbe davvero troppo limitativo. Forse una ideologia della lingua in senso stretto non esiste. Esiste, in compenso, una ben precisa ideologia della linguistica, il cui dogma principale è quello per cui in un contesto dato – nazionale, locale, universale, quello che volete – esiste una e una sola Lingua, con la maiuscola, e tutte le altre forme di espressione e comunicazione in uso ne vanno considerate al massimo delle varianti. Questa distinzione tra un archetipo di riferimento da una parte e una pletora di fenomeni derivati dall'altra è abbastanza pericolosa sul piano scientifico, perché impedisce di cogliere il carattere dinamico dell'attiva mentale sottesa a quella linguistica, la sua inesausta e inesauribile creatività. Ed è anche la base teorica di ogni diglossia, di ogni distinzione tra la lingua colta degli eletti e il gergo volgare delle masse, tra la comunità di quanti parlano “bene” e quelli che, come abbiamo letto poco fa, si trovano “al disotto del livello minimo di comprensione di un testo di media difficoltà”. Naturalmente la comprensione di un testo è un fatto bilaterale: se io lettore non lo capisco, può anche darsi che sia l'autore quello che non riesce a farsi capire. Ma se qualcuno ha deciso a priori che la lingua dell'autore è quella archetipale, cioè che è “giusta”, e che la mia è una variante, in quanto tale “scorretta”, la partita è già bello che chiusa. L'ideologia serve appunto a questo: a trasformare le descrizioni in giudizi di valore e a utilizzare questi giudizi in funzione normativa. A decidere, in definitiva, chi può comandare e chi deve ubbidire. È anche per questo che bisogna stare attenti a come si parla.

    04.12.'11