Tre righe

La caccia | Trasmessa il: 03/25/2012


Tre righe

    Che le prospettive del compianto articolo 18 non fossero particolarmente brillanti lo si poteva capire, già da paecchio, dal tipo di argomentazioni di cui si servivano coloro che più a livello politico avrebbero dovuto difenderlo. Spiegavano pressoché tutti nel Partito democratico, da Bersani in giù, che quell'articolo ormai contava pochissimo, tanto poco, in effetti, che abolirlo sarebbe stato un inutile dispendio di energia. In fondo, facevano notare, erano ben rare le vertenze di lavoro che lo chiamavano direttamente in causa, né si poteva certo sostenere sul serio che fosse la sua presenza a scoraggiare gli investitori nazionali ed esteri. Residuo di una stagione ormai preterita delle relazioni industriali, la norma sancita da quell'articolo andava considerata fondamentalmente innocua, tanto da rendere incomprensibili le ragioni di tanto accanimento governativo e padronale a pro della sua abolizione. L'argomentazione aveva un sottinteso, nel senso che chi l'accampava riteneva che altrettanto incomprensibili fossero le ragioni di chi quell'articolo si ostinava a difendere, ma era appunto un sottinteso, sia pure importante. Il senso generale era che nulla ostava a una tranquilla “manutenzione” – come diceva Bersani – della disciplina dei licenziamenti, come a dire a una soluzione che lasciasse più o meno le cose come stavano, ma permettesse a entrambe le parti di sostenere di non aver ceduto sulla sostanza.
    Che la questione fosse di scarso, se non irrilevante, momento, d'altronde, lo sosteneva anche il governo. Ben altre ambizioni nutriva la compagine dei professori, facevano notare i suoi portavoce, che quella di espungere una clausola tanto banale e insignificante. L'obiettivo era quello di una riforma generale del mercato del lavoro, che portasse il paese allo stesso livello raggiunto da decenni dalle nazioni evolute. Non per niente, a trattative finalmente concluse, la Fornero poteva farsi fotografare con un voluminoso scartafaccio in mano, per mostrare a tutti come le righe che il testo della “sua” riforma dedicava all'articolo in questione non fossero più di tre, troppo poche per giustificare – in definitiva – tanto cancan. L'abolizione proposta, in quella prospettiva, aveva soltanto un valore storico e simbolico, per far capire anche alle teste più dure come non vigessero più i vecchi veti e i vecchi tabù, perché l'Italia aveva voltato le spalle a un arcaico consociativismo e aveva scelto una soluzione finalmente adeguata ai tempi. Insomma, il valore principale in gioco era quello della modernità e a togliere ai lavoratori un diritto acquisito non ci pensava davvero nessuno.
    Adesso che la battaglia è finita e gli sconfitti contano mestamente le perdite, ci si rende conto, naturalmente, che erano tutte balle. Ai lavoratori è stato effettivamente tolto un diritto acquisito e il loro movimento ha uno strumento in meno di cui avvalersi nelle dispute con il padronato. L'argomento del contendere aveva ben poco di simbolico, nel senso che riguardava eminentemente la questione, concretissima, di chi comanda e chi obbedisce, tanto nei rapporti di alvoro quanto in quelli tra il governo e i partiti. Da questo punto di vista, anche se fosse vero che i casi di possibile applicazione di quella norma erano e resteranno comunque pochissimi, l'equilibrio dei poteri sociali ha subito uno spostamento decisivo e, per parafrasare un famoso titolo dell'Avanti! di tanti anni fa, da oggi siamo tutti un po' meno liberi.
    Lo negheranno, naturalmente. Passato il primo momento di sconcerto ci torneranno a dire che fondamentalmente non è cambiato nulla, che nessuno ha dato a nessun altro la facoltà di licenziare a piacere e che, tolte quelle tre, le altre innumerevoli righe dello scartafaccio della Fornero garantiscono al meglio i diritti e le garanzie dei prestatori d'opera. La sinistra, che in quanto forza d'opposizione era riuscita a impedire a Berlusconi per quasi vent'anni di realizzare quell'obiettivo, troverà il modo di accodarsi, come forza di quasi governo, alle imposizioni di Monti. Vedrete che anche alla Cgil, in un modo o nell'altro, si fingerà di concedere qualcosina, in modo di garantire alla sua dirigenza, se non proprio di salvare la faccia, almeno di ostentare una dignitosa continuità. L'importanza di qualche sottigliezza procedurale o nominale – che so: la scelta del disegno di legge piuttosto del decreto, una minima accentuazione della discrezionalità dei magistrati, l'accenno a possibili “intese” future, cose così – verrà doverosamente enfatizzata e il suo inserimento nel testo finale sarà presentato come una significativa conquista. I fondisti di “Repubblica” si sono messi subito al lavoro per spiegare che i principali squilibri del provvedimento sono già stati sanati e il presidente Napolitano si è già mostrato disposto ad adempire con la consueta autorevolezza al suo ruolo analgesico di garante.

    D'altronde non si potevano spaventare i mercati per tre righe.
25.03.'12