Chissà se a Londra va ancora in scena, alll’Ambassadors’ Theatre (o altrove),
The Mousetrap, la Trappola per topi, la celeberrima commedia gialla di
Agatha Christie che, essendosi presentata al pubblico per la prima volta
il 25 novembre 1952, ha battuto tutti i possibili record di permanenza
ininterrotta in scena. L’ultima volta di cui ne ho avuto notizie
sicure correva – credo – l’anno 1992 e i giornali riferivano che la
compagnia aveva solennemente celebrato il quarantesimo anniversario della
prima. Gli esperti del campo hanno sempre snobbato quel testo come
un tipico esempio di “teatro gastronomico”, come un’opera di facile,
facilissimo, consumo, dagli standard produttivi e interpretativi irrimediabilmente
datati (lo erano, probabilmente, già nel ’52), ma questo non ne ha mai
impedito il successo, alimentato specialmente dal flusso di turisti americani
di passaggio per Londra, nei programmi dei quali, sembra, una serata o
una matinée all’Ambassadors’ ha ormai raggiunto lo stesso grado
d’imprescindibilità della visita alla Torre o del cambio della Guardia
a Buckingham Palace. Per cui, anche in mancanza di informazioni precise,
resto abbastanza sicuro che la Trappola per topi potrà festeggiare, tra
breve, il mezzo secolo di vita. La tradizione è sempre la tradizione.
Personalmente, le poche volte in cui ho avuto
occasione di metter piede nella capitale inglese non ho mai avuto il tempo
o l’occasione di andare a vedere quella commedia, ma non certo per disprezzo
o mancanza d’interesse. Voi sapete che considero la Christie una
delle grandi autrici del secolo e Trappola per topi è indubbiamente uno
dei suoi testi più ingegnosi. Si fonda su uno degli assiomi più ovvii
del genere giallo, quello per cui l’assassino deve essere il meno sospettabile
dei personaggi, ma lo sviluppa con tanta sfacciata creatività da ingannare
ogni volta lettori e spettatori, compresi quelli che dovrebbero rendersi
conto di come la trama, in definitiva, non sia che una variante di un modello
che l’autrice ha già utilizzato più volte. E poi quella commedia
a me è particolarmente cara, perché mi ricorda il mio unico, fugace flirt
con il teatro: quando frequentavo il liceo (anzi, il ginnasio) alcuni giovanotti
di belle speranze che ambivano a costituire una filodrammatica si erano
baloccati con l’idea di metterla in scena, offrendomi, in considerazione
– credo – del mio giro di vita, la parte del maggiore Metcalf.
L’idea poi fu abbandonata, perché prevalsero gli elementi più intellettuali,
che imposero la sostituzione del progetto con quello di una “lettura drammatica”
di Piccola città di Thornton Wilder, in cui l’unico ruolo disponibile
per me risultò quello, assai meno gratificante, del becchino Stoddard e
che comunque, per vari motivi, non ebbe seguito. Peccato, eh:
avrei potuto diventare un divo del palcoscenico e queste mie prediche domenicali
vi sarebbero, se non altro, risparmiate.
Comunque, se vi parlo di Trappola per topi,
non lo faccio per inseguire le mie reminiscenze giovanili, che non credo
vi possano interessare più che tanto. Lo faccio perché mi è giunta
notizia (in ritardo, di cui mi scuso) che la settimana scorsa, qui a Milano,
al Nuovo Piccolo Teatro, hanno dato, guarda un po’, l’Arlecchino servitore
di due padroni di Carlo Goldoni, nella ben nota regia di Giorgio Strehler.
E mi è venuto in mente che, a petto di questa nostra tradizione
ambrosiana, a Londra sono solo dei dilettanti.
Perché, insomma, l’Arlecchino di Strehler,
che festeggia quest’anno i suoi bei cinquantadue anni, rappresenta, per
i milanesi della mia generazione, l’unico elemento di continuità in una
realtà in continua trasformazione, l’unica eredità culturale che ci siamo
tramandati dal ’47 a oggi con la dovuta reverenza. Io ricordo di
averlo visto da piccolo in televisione, in bianco e nero, quando ancora
stare alzato a vedere la televisione era un’avventura mica da poco; di
essere stato portato a vederlo, studente di scuola media, insieme a una
frotta di condiscepoli riottosi, di averci accompagnato, anni dopo, da
insegnante, una serie di classi altrettanto riottose e persino di essere
andato per conto mio in teatro a vedermelo, non ricordo in quale delle
sue otto incarnazioni. E l’Arlecchino non è un’opera di consumo,
da proporre a un pubblico di turisti perché fa atmosfera o perché così
vuole la tradizione (produrre materiale del genere, ahimé, ormai tocca
alla Scala, che però, se non altro, cambia repertorio ogni anno): è un
caposaldo della regia contemporanea, un esempio memorabile di come rivisitare,
con mentalità moderna, la rivisitazione goldoniana della Commedia dell’Arte,
rivestendo d’imprevedibile attualità le vicende di Beatrice e Florindo,
di Pantalone, Silvio e Clarice, di Brighella, Arlecchino e Smeraldina…
La differenza che separa la Trappola per topi dall’Arlecchino, insomma,
è quella che separa l’opera di consumo dall’Opera di Cultura, con tutte
le sue brave maiuscole.
È vero che qualche riottoso potrà sempre chiedersi che senso ha riproporre
lo stesso spettacolo, anno dopo anno, a una città che ormai ha cambiato
pelle tante volte, passando dal centro industriale un po’ smozzicato del
dopoguerra alla città dei cummenda e del miracolo economico, dagli operai
alle modelle, dagli anni della contestazione a quelli del terrorismo, dalla
città da bere a quella da buttare, dalla borghesia illuminata all’elettorato
del pavone Albertini e rimpiangere – magari – i tempi in cui la produzione
artistica, musicale, teatrale si giocava anche nel senso di un rinnovamento,
di una ricerca che, senza sfociare necessariamente nell’avanguardia (che,
peraltro, serve anche lei), sappia riaggiornare i modelli e riproporre
ai fruitori, almeno ogni tanto, qualche nuova idea. Ma chi si abbandonasse
a questi rimpianti dimostrerebbe di non avere capito che cos’è la Milano
di oggi. Noi milanesi di oggi, guardiamoci pure negli occhi, non
desideriamo novità: ne abbiamo paura, le vediamo soprattutto come minacce,
come il portato di un’invasione estranea che bisogna sforzarsi di arginare.
Siamo paghi, dal punto di vista culturale, dell’eccellenza delle
due o tre istituzioni che sono riuscite, chissà come, a sopravvivere e
a esse sacrifichiamo qualsiasi tentativo, peraltro sgradito, di innovazione.
La riproposizione periodica dell’Arlecchino di Strehler prefigura
un futuro, ormai non troppo lontano, in cui al Piccolo si reciterà sempre
la stessa commedia, alla Scala si canterà sempre la stessa opera, al Conservatorio
si suonerà sempre lo stesso concerto e a Radio Popolare si sentiranno sempre
le stesse rubriche (Caccia compresa) e le stesse conduzioni. Perché,
naturalmente, non sono soltanto i topi che rischiano di finire in trappola.
31.01.’99