Ricordo che quando, tantissimi anni
fa, avevo incontrato per la prima volta i romanzi di Raymond Chandler,
ero restato affascinato, tra l’altro, dalla ricetta del cocktail che Philip
Marlowe era solito bere, nei loro fuggevoli incontri pomeridiani in qualche
tranquillo bar fuori mano, con Terry Lennox, l’amico che, alla fine, lo
avrebbe tradito. Si chiamava – il cocktail, dico – “succhiello”
ed era composto, stando al testo in mie mani, da un cinquanta e cinquanta
di gin e sciroppo di cedro, con uno schizzo facoltativo di amaro. Non
mi intendevo affatto di cocktail, ma quella mistura di dolce, amaro e secco
mi sembrava interessante e mi sarebbe piaciuto bere qualcosa del genere
con un amico in un tranquillo bar fuori mano, anche a rischio di scoprire,
come il povero Marlowe, che quell’amico, dopo tutto, non era così disinteressato
come sembrava. Ma di bar che preparassero cocktail non ne conoscevo
(forse, a Milano, ce ne saranno stati due o tre) e i miei tentativi di
applicare in proprio quella ricetta producevano invariabilmente dei beveroni
talmente dolci da stomacare, non che un romantico investigatore privato,
un rinoceronte dai gusti appena coltivati. Dopo varie esperienze
non propriamente gradevoli, ero arrivato alla conclusione che gli ingredienti
di cui disponevo non fossero, per un motivo o per l’altro, paragonabili
a quelli in uso in California – in effetti, come avrei scoperto molto
più tardi, leggendo gli originali, lo “sciroppo di cedro” avrebbe dovuto
essere del lime cordial, che è tutt’altra cosa, e per lo schizzo sarebbe
stato assai più opportuno ricorrere, più che all’amaro, all’angostura
bitter, che nel nostro paese era affatto sconosciuto – e che non
valeva la pena di insistere. Ma devo ammettere che per anni l’idea
di un succhiello (di un gimlet, nell’originale) mi ha variamente allettato,
entrando a far parte, a pieno titolo, del mio immaginario alcolico e letterario.
Il nome, certo, poteva suonare un po’ strano, ma il succhiello,
in fondo, è un qualcosa di acuto e di penetrante, come l’intelligenza
di un grande investigatore ed era fin troppo ovvio che un detective in
gamba come Marlowe non bevesse nient’altro. Anzi, ero arrivato a
concludere che la scelta di quel nome fosse stata, da parte dell’autore,
una raffinatezza voluta, una strizzatina d’occhio rivolta a quei pochi
lettori abbastanza perspicaci, come me, per afferrarne il senso riposto.
Ahimè.
Scopro oggi in un vecchio numero dell’Espresso che anche questa
era un’illusione. Il gimlet, che figura, con gli stessi ingredienti,
sia pure in proporzioni diverse, nell’elenco ufficiale delle ricette dell’International
Bartender Association, deve il suo nome a quello del suo inventore, tale
T. O. Gimlette, ufficiale medico della regia marina britannica verso la
fine del diciannovesimo secolo, un personaggio di cui oggi non si sa molto,
ma che ai suoi tempi ebbe una certa fama, al punto da conseguire, non so
per meriti alcolici o sanitari, il titolo di baronetto. Il traduttore
del Lungo addio, evidentemente, era affatto ignorante in materia di cocktail
e aveva reagito alla sfida del testo come aveva potuto. Vocabolario
alla mano, aveva fatto del gimlet un succhiello, secondo la stessa logica
con cui aveva trasformato il lime cordial in sciroppo di cedro e il bitter
in amaro. Questo significava, in ultima analisi, fornire ai destinatari
del suo lavoro delle informazioni totalmente ingannevoli, ma la narrativa
è narrativa e in narrativa non esiste un’informazione abbastanza sbagliata
da non essere sanabile in qualche modo con un po’ di lavorio mentale da
parte dei lettori.
Il
tutto, naturalmente, conferma una verità ben nota agli addetti ai lavori.
Per tradurre non è necessaria una gran conoscenza della lingua di
entrata e non basta, anche se è indispensabile, saper dominare la lingua
di uscita. Il problema, assai più spinoso, è quello di condividere
la cultura dell’autore, di saper decifrare le sue allusioni e di cogliere
il senso dei suoi riferimenti, anche i più casuali, perché si può leggere
l’inglese come se fosse la propria lingua madre e scrivere un italiano
degno delle lodi dei puristi della Crusca, ma si può sempre scivolare di
brutto sulla ricetta e sul nome di un cocktail. È un’impresa, a
ben pensarci, da far tremare le vene e i polsi e, in effetti, se oggi ripenso
alle venti o trenta opere di narrativa e saggistica che portano la mia
firma di traduttore, mi sorprendo a chiedermi a quali immani bestialità
posso essermi lasciato andare senza essermene nemmeno accorto. Se
ve ne capitasse sott’occhio qualcuna, vi prego, non fatemelo sapere.
C. Oliva, 08.04.’01