Teologia giornalistica

La caccia | Trasmessa il: 10/17/1999




Non ci crederete, ma tutti gli anni, quando, ai primi di giugno, sospendiamo la “Caccia”, io faccio i buoni propositi.  Prometto solennemente a me stesso che non farò come la cicala della favola, che non dissiperò la mia estate cantando e ballando (attività – oltretutto – poco consone alla mia dignità e alla mia corporatura), che non trascurerò i miei doveri di critico e cronista dell’ideologico quotidiano.  Pur sollevato dalla scadenza dell’appuntamento domenicale con gli ascoltatori, mi dico, continuerò ad annotarmi con scrupolo ogni episodio interessante in cui mi capiterà d’imbattermi, schederò con scrupolo le mie letture, raccoglierò una quantità di ritagli di giornale: non mi lascerò, insomma, cogliere impreparato dall’autunno, ma farò in modo da mettere da parte, da brava formichina operosa, una quantità di provviste ideologiche cui attingere, dissipando almeno in parte l’angoscia della ricerca settimanale degli argomenti da proporre alla vostra attenzione.

       Naturalmente, non ne faccio nulla.  Dissipo l’estate come un cicalone qualsiasi e a ogni ottobre, ahimè, devo constatare che la cartelletta che mi ero diligentemente preparato è vuota, o quasi.  Quest’anno ci ho trovato solo tre ritagli:  risalgono alla fine di luglio e riguardano, pensate un po’, certi interventi pubblici del papa sul tema dell’aldilà.  E visto che alla mia età anche la memoria comincia a cedere, ho passato qualche giorno a chiedermi perché mai allora avessi supposto che un simile argomento potesse, in qualche modo, interessarvi.

       Perché, in fondo, il papa non aveva detto niente di speciale.  Aveva detto, nel corso di tre udienze generali consecutive, che il Paradiso esiste, certo, ma non si trova in cielo; che l’Inferno, ci mancherebbe altro, esiste, anche se nessuno può dire chi vi sia alloggiato, ma che quella del fuoco eterno è una metafora; che il Purgatorio, perbacco, esiste, anche se il suo status teologico è un po’ meno sicuro e che il buon cristiano, a scanso di guai, deve credere a tutti e tre.

       I giornali, lo ricorderete, avevano dedicato a queste prese di posizione un rilievo adeguato alla dignità di chi li aveva espresse, ma, in fondo, non ce n’era proprio motivo.  Sappiamo tutti che se un cane morde un uomo l’interesse della notizia in cronaca è piuttosto scarso, e il fatto che il papa raccomandi di credere all’esistenza dell’Inferno, del Paradiso e del Purgatorio non rappresenta esattamente una novità.  Sarebbe stato tutto diverso se l’uomo avesse morso il cane: se Giovanni Paolo II, cioè, avesse confessato che sull’esistenza dell’aldilà anche lui, come tutti, nutre parecchi dubbi.  Quello sì che sarebbe stato un argomento da titoloni.  Ma che il papa continui a insegnare quello che tutti i papi insegnano da quasi duemila anni non è, con tutto il rispetto, cosa di particolare interesse.  Sì, certo, ha detto che il Paradiso non è in cielo, nel senso che è difficile che un astronauta ci capiti, almeno da vivo, e che le fiamme dell’Inferno sono una metafora per indicare tormenti di natura ben più spirituale, ma anche queste non sono esattamente delle novità: sono affermazioni di buon senso, teologicamente piuttosto ovvie, che si trovano su ogni buon catechismo e che ogni parroco incaricato dell’insegnamento della religione nelle scuole primarie sa utilizzare per rintuzzare le incipienti manifestazioni di eresia giovanile.  Quanto al Purgatorio, sarebbe stato ben strano se proprio alla vigilia del gran businness del Giubileo, il cui fine dichiarato, si sa, è quello di abbreviare la permanenza propria e altrui in tal sede, ne fosse stata messa in dubbio la realtà effettiva.

       Ma il papa è il papa e quel che dice fa notizia.  Ed essendo il papa avrà dei motivi per dire quello che dice (oltre a quello di far contento Vittorio Messori, che sul Corriere del 5 agosto rivela di aver suggerito lui al pontefice la tematica dell’aldilà).  E quelle dichiarazioni, per quanto ovvie, non lo sono abbastanza perché qualsiasi altro papa le abbia, a quanto mi risulta, espresse mai.   Anche da questo punto di vista, badate, non c’è niente di nuovo: la tendenza, se così si può dire, a far scandalo proclamando con solennità dei concetti che fino a qualche tempo fa sarebbero sembrate pericolose eresie è tipica dello stile e degli interessi del pontefice attualmente regnante.  Naturalmente si tratta di “eresie” fra virgolette, che la chiesa (e i suoi avversari) hanno ormai digerito da tempo.  La catechesi corrente ammette da almeno un secolo il sistema copernicano; sono decenni che nessun vescovo si prende la briga di difendere in toto l’Inquisizione; il pensiero di Darwin viene tranquillamente insegnato nelle principali università cattoliche (i protestanti, chissà perché, continuano ad avere qualche problema in merito) e nessun anticlericale, per quanto culturalmente arretrato, rimprovererebbe alla chiesa di oggi il Sillabo, il processo a Galileo o il rogo di Giordano Bruno.  Eppure, sentire un papa che su questi argomenti innesta la retromarcia ideologica  fa sempre una certa impressione.  Feyerabend ha scritto da qualche parte che, in fondo, questa straordinaria remissività non significa altro che la volontà di mollare della zavorra, perché sul temi che gli premono veramente, come la morale sessuale, l’indissolubilità del matrimonio o il ruolo della donna nella chiesa (per non dire della teologia della liberazione o del giudizio storico sul comunismo) il pontefice si è dimostrato molto più risoluto.  Ma Feyerabend era un ragazzaccio irriverente, del cui pensiero le persone posate non devono darsi cura e non ce ne daremo certo noi.

       Io, personalmente, ho un sospetto, che, forse, spiega perché mi sia tenuto quei ritagli nel cassetto per tre mesi, in attesa di parlarvene.  Ho il sospetto che di queste e simili affermazioni al papa interessi, come dire, più l’aspetto mediatico che quello teologico.  Mi spiego: certe verità sono diffuse nell’insegnamento normale della chiesa, ma a Wojtyla, forse, l’insegnamento normale della chiesa interessa fino a un certo punto.  Lui sa che per la cultura corrente una verità non è tale, non è condivisa – cioè – dalla comunità che l’esprime, perché è contenuta nei libri o viene insegnata nelle scuole, ma assurge al suo status ottimale solo quando viene sparata in prima pagina o proclamata in televisione.   La sanzione definitiva di un concetto qualsiasi oggi è rappresentata dalla sua assunzione nell’universo della comunicazione di massa.  Il papa sa che le sue parole verranno comunque riferite con la debita pompa e, con encomiabile spirito di servizio, si sottopone al dovere, che suppongo sgradevole, per un uomo intelligente come lui, di proclamare solennemente delle banalità.  Banalità che per il fatto stesso di essere proclamate da lui (o meglio: di essere riferite dai media come proclamate da lui) attingono ipso facto alla dimensione di preziose verità di fede per l’uomo contemporaneo.  È un modo ingegnoso, lo ammetterete, per confermare agli occhi diffidenti dei contemporanei una dubbia verità di fede con la stessa perentorietà con cui si usa affermare l’eccellenza calcistica di Ronaldo o l’innocenza politica di Andreotti.

Diavolo di un uomo, verrebbe da dire, se non si trattasse del papa.


17 ottobre ’99