Non ci crederete, ma tutti gli anni, quando, ai primi di giugno, sospendiamo
la “Caccia”, io faccio i buoni propositi. Prometto solennemente
a me stesso che non farò come la cicala della favola, che non dissiperò
la mia estate cantando e ballando (attività – oltretutto – poco consone
alla mia dignità e alla mia corporatura), che non trascurerò i miei doveri
di critico e cronista dell’ideologico quotidiano. Pur sollevato
dalla scadenza dell’appuntamento domenicale con gli ascoltatori, mi dico,
continuerò ad annotarmi con scrupolo ogni episodio interessante in cui
mi capiterà d’imbattermi, schederò con scrupolo le mie letture, raccoglierò
una quantità di ritagli di giornale: non mi lascerò, insomma, cogliere
impreparato dall’autunno, ma farò in modo da mettere da parte, da brava
formichina operosa, una quantità di provviste ideologiche cui attingere,
dissipando almeno in parte l’angoscia della ricerca settimanale degli
argomenti da proporre alla vostra attenzione.
Naturalmente, non ne faccio nulla. Dissipo
l’estate come un cicalone qualsiasi e a ogni ottobre, ahimè, devo constatare
che la cartelletta che mi ero diligentemente preparato è vuota, o quasi.
Quest’anno ci ho trovato solo tre ritagli: risalgono alla
fine di luglio e riguardano, pensate un po’, certi interventi pubblici
del papa sul tema dell’aldilà. E visto che alla mia età anche la
memoria comincia a cedere, ho passato qualche giorno a chiedermi perché
mai allora avessi supposto che un simile argomento potesse, in qualche
modo, interessarvi.
Perché, in fondo, il papa non aveva detto niente
di speciale. Aveva detto, nel corso di tre udienze generali consecutive,
che il Paradiso esiste, certo, ma non si trova in cielo; che l’Inferno,
ci mancherebbe altro, esiste, anche se nessuno può dire chi vi sia alloggiato,
ma che quella del fuoco eterno è una metafora; che il Purgatorio, perbacco,
esiste, anche se il suo status teologico è un po’ meno sicuro e che il
buon cristiano, a scanso di guai, deve credere a tutti e tre.
I giornali, lo ricorderete, avevano dedicato
a queste prese di posizione un rilievo adeguato alla dignità di chi li
aveva espresse, ma, in fondo, non ce n’era proprio motivo. Sappiamo
tutti che se un cane morde un uomo l’interesse della notizia in cronaca
è piuttosto scarso, e il fatto che il papa raccomandi di credere all’esistenza
dell’Inferno, del Paradiso e del Purgatorio non rappresenta esattamente
una novità. Sarebbe stato tutto diverso se l’uomo avesse morso il
cane: se Giovanni Paolo II, cioè, avesse confessato che sull’esistenza
dell’aldilà anche lui, come tutti, nutre parecchi dubbi. Quello
sì che sarebbe stato un argomento da titoloni. Ma che il papa continui
a insegnare quello che tutti i papi insegnano da quasi duemila anni non
è, con tutto il rispetto, cosa di particolare interesse. Sì, certo,
ha detto che il Paradiso non è in cielo, nel senso che è difficile che
un astronauta ci capiti, almeno da vivo, e che le fiamme dell’Inferno
sono una metafora per indicare tormenti di natura ben più spirituale, ma
anche queste non sono esattamente delle novità: sono affermazioni di buon
senso, teologicamente piuttosto ovvie, che si trovano su ogni buon catechismo
e che ogni parroco incaricato dell’insegnamento della religione nelle
scuole primarie sa utilizzare per rintuzzare le incipienti manifestazioni
di eresia giovanile. Quanto al Purgatorio, sarebbe stato ben strano
se proprio alla vigilia del gran businness del Giubileo, il cui fine dichiarato,
si sa, è quello di abbreviare la permanenza propria e altrui in tal sede,
ne fosse stata messa in dubbio la realtà effettiva.
Ma il papa è il papa e quel che dice fa notizia.
Ed essendo il papa avrà dei motivi per dire quello che dice (oltre
a quello di far contento Vittorio Messori, che sul Corriere del 5 agosto
rivela di aver suggerito lui al pontefice la tematica dell’aldilà). E
quelle dichiarazioni, per quanto ovvie, non lo sono abbastanza perché qualsiasi
altro papa le abbia, a quanto mi risulta, espresse mai. Anche da
questo punto di vista, badate, non c’è niente di nuovo: la tendenza, se
così si può dire, a far scandalo proclamando con solennità dei concetti
che fino a qualche tempo fa sarebbero sembrate pericolose eresie è tipica
dello stile e degli interessi del pontefice attualmente regnante. Naturalmente
si tratta di “eresie” fra virgolette, che la chiesa (e i suoi avversari)
hanno ormai digerito da tempo. La catechesi corrente ammette da almeno
un secolo il sistema copernicano; sono decenni che nessun vescovo si prende
la briga di difendere in toto l’Inquisizione; il pensiero di Darwin viene
tranquillamente insegnato nelle principali università cattoliche (i protestanti,
chissà perché, continuano ad avere qualche problema in merito) e nessun
anticlericale, per quanto culturalmente arretrato, rimprovererebbe alla
chiesa di oggi il Sillabo, il processo a Galileo o il rogo di Giordano
Bruno. Eppure, sentire un papa che su questi argomenti innesta la
retromarcia ideologica fa sempre una certa impressione. Feyerabend
ha scritto da qualche parte che, in fondo, questa straordinaria remissività
non significa altro che la volontà di mollare della zavorra, perché sul
temi che gli premono veramente, come la morale sessuale, l’indissolubilità
del matrimonio o il ruolo della donna nella chiesa (per non dire della
teologia della liberazione o del giudizio storico sul comunismo) il pontefice
si è dimostrato molto più risoluto. Ma Feyerabend era un ragazzaccio
irriverente, del cui pensiero le persone posate non devono darsi cura e
non ce ne daremo certo noi.
Io, personalmente, ho un sospetto, che, forse,
spiega perché mi sia tenuto quei ritagli nel cassetto per tre mesi, in
attesa di parlarvene. Ho il sospetto che di queste e simili affermazioni
al papa interessi, come dire, più l’aspetto mediatico che quello teologico.
Mi spiego: certe verità sono diffuse nell’insegnamento normale della
chiesa, ma a Wojtyla, forse, l’insegnamento normale della chiesa interessa
fino a un certo punto. Lui sa che per la cultura corrente una verità
non è tale, non è condivisa – cioè – dalla comunità che l’esprime, perché
è contenuta nei libri o viene insegnata nelle scuole, ma assurge al suo
status ottimale solo quando viene sparata in prima pagina o proclamata
in televisione. La sanzione definitiva di un concetto qualsiasi
oggi è rappresentata dalla sua assunzione nell’universo della comunicazione
di massa. Il papa sa che le sue parole verranno comunque riferite
con la debita pompa e, con encomiabile spirito di servizio, si sottopone
al dovere, che suppongo sgradevole, per un uomo intelligente come lui,
di proclamare solennemente delle banalità. Banalità che per il fatto
stesso di essere proclamate da lui (o meglio: di essere riferite dai media
come proclamate da lui) attingono ipso facto alla dimensione di preziose
verità di fede per l’uomo contemporaneo. È un modo ingegnoso, lo
ammetterete, per confermare agli occhi diffidenti dei contemporanei una
dubbia verità di fede con la stessa perentorietà con cui si usa affermare
l’eccellenza calcistica di Ronaldo o l’innocenza politica di Andreotti.
Diavolo di un uomo, verrebbe da dire, se non si trattasse del papa.
17 ottobre ’99