Strutture residuali

La caccia | Trasmessa il: 02/13/2000



Ogni tanto, spigolando nel campo delle comunicazioni di massa, capita di imbattersi in autentici fossili ideologici, in veri e propri frammenti del passato conservati, chissà come, per la gioia degli studiosi.  Appartiene a questa preziosa categoria il lamento di un signore di Pinerolo che questa settimana mi è capitato di leggere, non senza commozione, sulla rubrica delle lettere dei lettori de “L’Espresso” (che adesso si chiama “Forum” ed è accessibile grazie a un indirizzo e-mail, ma di una rubrica di lettere dei lettori sempre si tratta).  Il lettore in questione è addolorato per la presenza nella lingua italiana contemporanea di troppi termini inglesi: una posizione, in sé, affatto legittima, perché tutti sono liberi di addolorarsi per quello che vogliono, ma meno facile da motivare sul piano scientifico di quanto non sembri.  Infatti, dopo aver notato che “tutti i popoli conquistatori hanno sempre imposto, innanzi tutto, la loro lingua”, tanto è vero che “le lingue che parliamo oggi nel sud-ovest europeo  … provengono dall’imposizione del latino”, e fin qui tutto bene, o quasi, lo sciagurato si lancia in distinzioni davvero un po’ dubbie.  “Il latino – scrive – era una lingua ricca ed evoluta.  L’inglese risulta invece un linguaggio residuale, a struttura gergale, mezzo espressivo di un popolo mercantile-imperialista”, per cui non può che deturpare l’italiano con un’alluvione di “strutture idiomatico-gergali” e di “vocaboli imprecisi e vaghi”.  Il fenomeno, a suo avviso, è “concomitante e parallelo al progredire dell’ignoranza e dell’infantilismo popolari” e rappresenta “un problema di primaria importanza per chi voglia reagire a tale andazzo”.  Eccetera.
        Il lettore non del tutto digiuno di linguistica scuote la testa.  Pover’uomo, pensa.  Siamo nel 2000 e questo onesto lettore de “L’Espresso”, un settimanale – oltretutto – di grandi tradizioni democratiche, pur di sacramentare contro l’ignoranza e l’infantilismo del popolo, che è una cosa che fa sempre piacere, deve ricorrere alle più dubbie attribuzioni di valore.  Protesta perché l’italiano è contaminato da un’altra lingua, ma non ha il coraggio di richiamarsi espressamente alla grande tradizione del purismo.  Probabilmente sa che, come scuola di pensiero, il purismo oggi non va più che tanto, che di Basilio Puoti non si ricorda nessuno e che l’Accademia della Crusca si è vista recentemente tagliare i contributi ministeriali.  Cerca allora con zelo di giustificare la sua ostilità in termini storico-strutturali, ma di fronte alla manifesta difficoltà di spiegare di che cosa l’inglese vada considerato un residuo e in che senso la sua struttura possa definirsi gergale, rivela inesorabilmente la propria corda ideologica.  Non ha nulla di meglio da dire che da un popolo a vocazione mercantile e imperialista come quello inglese non ci si può aspettare niente di buono, con il che non soltanto rievoca il “dio stramaledica gli inglesi” di mussoliniana memoria, ma si caccia nella più nera delle contraddizioni, visto che all’inglese vuol contrapporre il latino e di gente più portata all’imperialismo e all’esercizio intensivo del commercio dei padri Romani non è proprio facile trovarne.  Si fosse limitato a dire, come insegnavano a me alle elementari, che l’italiano ha una ben più nobile tradizione culturale o che trattasi di lingua molto più musicale e armoniosa, se la sarebbe un cavata con una semplice imputazione di banalità.  Invece ha voluto strafare, tirando in ballo il latino, e così ci ha rivelato non soltanto di nutrire, come dire, delle tendenze un po’ fascisteggianti, il che per un lettore de “L’Espresso” non sta mai bene, ma di essere più ignorante della tradizionale capra.
        L’inglese e il latino, però, non c’entrano quasi niente.   Le lingue non sono delle “cose”, non sono delle entità che si possono sovrapporre l’una all’altra, per decidere, in base a un qualche criterio, quale sia la più bella o quale la più grande.   Le lingue sono dei complessi sistemi di operazioni che creiamo e utilizziamo noi, per rendere pubbliche le operazioni che compiamo privatamente a livello mentale, e, visto che, fino a prova contraria, la mente è la stessa per tutti, sono anch’esse, in sostanza, tutte uguali.  Quel poco che le diversifica l’una dall’altra, che fa sì che chi parla abitualmente il cinese abbia qualche problema per comprendere in tutte le sue sfumature il dialetto astigiano, dipende soltanto dalla differenza delle situazioni, temporali, locali e sociali, in cui le impieghiamo.  Infatti i problemi di comprensione, nonostante tutto, sono sempre superabili con un po’ di sforzo; nulla osta a che un cinese riesca a imparare l’astigiano e viceversa e qualsiasi testo può essere tranquillamente tradotto da qualsiasi lingua in qualsiasi altra.  Il fatto che l’unica umanità di cui facciamo parte tutti abbia sviluppato, secondo gli ultimi calcoli, cinque o seimila lingue principali diverse, può causarci qualche problema pratico, ma, nel complesso, va considerato una ricchezza comune.  E il fatto che queste lingue possano fondersi, mescolarsi, influenzarsi l’una con l’altra, oltre a rappresentare un ulteriore arricchimento, significa soltanto che noi uomini siamo liberi di avere con i nostri simili tutte le relazioni che vogliamo e ci mancherebbe che qualcuno cercasse di impedircelo.
        Ahimè, c’è sempre qualcuno che cerca, per un motivo o per l’altro, di impedircelo.  E visto che spesso, di questi tempi, si vergogna di dirlo espressamente, o ha comunque i suoi motivi per non farlo, talvolta lo dichiara in via implicita, ricorrendo a qualche argomentazione collaterale, come appunto quelle linguistiche.   Datemi retta: ogni volta che sentite qualcuno lamentarsi della decadenza della nostra bella lingua, stateci attenti.  Magari lui non lo sa, ma al fatto che tutti gli uomini siano uguali (e abbiano, quindi, tutti gli stessi diritti) quel tipo lì non è mai riuscito a crederci completamente.

13.02.’00