Strani privilegi

La caccia | Trasmessa il: 04/02/2006




Non ci è dato sapere, naturalmente, sa dove si trovi di preciso Abdul Rahman, il cittadino afgano convertito al cristianesimo che, per scampare alla persecuzione religiosa di cui era oggetto nel suo paese, ha cercato rifugio nel nostro.  A rigor di logica, dovrebbe essere stare in un CPT, visto che nel nostro allegro paese una normativa precisa sul diritto di asilo non c’è, i richiedenti vengono assimilati per prassi agli immigrati clandestini e i CPT sono appunto le istituzioni in cui tale risma di gente va trattenuta sotto sorveglianza finché le autorità competenti non abbiano definito la loro posizione.  Ora, tutti sappiamo che chi finisce in quei posti di norma viene rispedito in patria senza se e senza ma e che questa è stata, di fatto, la sorte di una quantità incredibile di poveracci che in Italia cercavano protezione e accoglienza, ma almeno a lui, forse, questo destino sarà risparmiato.  L’uguaglianza è una cosa di sinistra e da noi, fino a scrutinio contrario, comanda la destra.  Abdul Rahman, dopo tutto, a Roma è arrivato su raccomandazione del Papa, a bordo di un aereo del governo e l’asilo gli è stato concesso in giornata con delibera espressa del Consiglio dei Ministri.  Era l’unico modo, dicono, per salvargli la pelle, del che siamo tutti ovviamente felici, ma la cosa non esclude che il trattamento di cui ha fruito sia di tipo, diciamo pure, privilegiat, di fronte al quale quello che l’Italia riserva agli esuli e ai perseguitati “normali” si rivela ancora più scandaloso.   Ci troviamo, insomma, di fronte a un caso patente di applicazione del noto criterio dei due pesi e delle due misure e speriamo soltanto che i funzionari che lo hanno dovuto gestire un filo di vergogna l’abbiano provato.  Diciamo i funzionari, perché quelli che stanno più in alto, si sa, alla vergogna sono pervicacemente refrattari.

       Suppongo, tuttavia, che persino il nostro Ministro degli Esteri abbia potuto cogliere la stranezza del caso.  L’asilo si concede, normalmente, a chi è perseguitato da un governo o un regime che si presuppongono ostili, non foss’altro perché riluttanti a quei principi di democrazia che dovrebbero tutelare senza eccezione ogni essere umano.  Il governo dell’Afghanistan, però, non appartiene a questa categoria.  È un governo alleato, se non amico, visto che in pratica è stato insediato da un intervento militare dei nostri alleati americani nel dicembre 2001 e, per regolare accordo del 5 gennaio successivo, consente lo stazionamento sul suo territorio di una forza multinazionale di sicurezza sotto comando NATO, per un totale di 4.500 effettivi di cui 600 italiani (da sommarsi naturalmente ai 20.000 soldati americani che c’erano già prima).  E accanto alle forze armate vi operano organizzazioni e consulenti occidentali di ogni tipo: una missione italiana, per esempio, sta lavorando al riordino del sistema legislativo.  Di più: vi ci si sono svolte regolari elezioni presidenziali e politiche, il cui successo è stato indicato da molti governi, compreso il nostro, come una prova lampante del fatto che l’intervento militare, così inviso a quei confusionari dei pacifisti, dal punto di vista del progresso democratico pagava, eccome, e vi è stata proclamata una Costituzione che prevede, tra l’altro, la piena libertà di religione e di culto.  Il governo, certo, non controlla ancora tutto il territorio, e non è escluso che nelle parti non controllate ne succedano di ogni (vi si produce – per esempio – la maggior parte dell’oppio disponibile sul pianeta), ma diamo tempo al tempo e vedremo che anche tra quelle selvagge montagne la democrazia liberale celebrerà un altro dei suoi inevitabili trionfi.

       Almeno, così ci hanno detto.  Raccontandoci, evidentemente, delle gran balle, visto che non è il caso di avere soverchia fiducia sul livello di democrazia di un paese che impedisce ai suoi sudditi, pena il capestro, di esercitare un’opzione ideologica tanto innocua quanto quella di cambiare religione, e nell’ambito – per di più – delle “grandi religioni monoteiste”, che come sanno tutti dai tempi di Melchisedec giudeo e di Nathan il saggio sono, in sostanza, la stessa cosa.  E in quella ovvia assenza di democrazia è inevitabile chiedersi cosa ci stiano a fare tutti i militari e i civili che ci abbiamo mandato con la scusa di instaurarla e difenderla e non sono stati capaci neanche di richiamare le autorità locali a un minimo di rispetto dei suoi principi di base.  E allora, magari, non avevano torto del tutto quei rompicoglioni dei pacifisti a sostenere, nel 2001 come nel 2003, che la democrazia non si esporta in quel modo e non si capisce neanche perché del rientro in patria del contingente italiano dall’Iraq un poco, sia pure nel più ovattato e prudente dei modi, si riesca a discutere, mentre sulla permanenza  sine die a Kabul sembrano tutti d’accordo, Unione compresa.  Eccetera.

       Il povero Abdul Rahman, che adesso non rischia più di morire martire della sua fede e può leggersi a suo piacere la Bibbia (e pazienza se la chiesa ha sempre consigliato di non affrontare quel difficile testo e di farselo, semmai, spiegare dai preti), non deve comunque credere che i suoi guai siano definitivamente finiti.  Dovrà presto sperimentare le dubbie delizie di una società che rifiuta, negli auspici dei suoi governanti, qualsiasi sviluppo multietnico e pluriculturale.  Per ora, comunque, ha avuto lo strano privilegio di aprire una contraddizione nel suo paese e di venire impiegato per chiuderla nel nostro.  Magari si sarà accorto anche lui che per chiuderla davvero i suoi protettori non si sono troppi sforzati, visto che gli è bastato, more solito, metterci una toppa, una di quelle che per chiudere un buco da una parte ne spalancano un altro più in là, ma pazienza: non si può avere tutto.  Nella fiduciosa attesa del primo musulmano accolto perché a casa sua gli vengono negati i più elementari diritti (in Israele, per citare un paese a caso, succede spesso) gli porgiamo comunque il nostro benvenuto più caloroso.


02.04.’06