Non so se la guerra finirà davvero il
15 maggio, come si è fatto intendere dopo l’accordo, se tale lo si può
definire, faticosamente raggiunto tra le potenze occidentali e la Russia
nella riunione dei G8. Spero, naturalmente, di sì, anche se finora
i raid si sono infittiti, il Congresso americano ha festeggiato l’evento
stanziando 13 miliardi di dollari di spese militari straordinarie e i responsabili
dell’Uck hanno dichiarato che a farsi disarmare loro neanche ci pensano,
per non dire del fatto che bombardare l’ambasciata cinese non sembra esattamente
il modo migliore per garantire l’indispensabile appoggio diplomatico di
quel paese al processo di pace. Ma comincio ad avere il sospetto
che, in ogni caso, le conseguenze di questa guerra, quali che ne saranno
gli esiti, peseranno su tutti noi molto a lungo. E non solo perché
ci vorranno molto tempo e molte risorse per ricostruire tutto ciò che la
stupida violenza della logica militare ha distrutto. Il fatto è che,
certe volte, sembra che anche la capacità di ragionare sia stata ridotta
in macerie.
Ieri,
per esempio, mi è capitato di leggere su “la Repubblica” un garbato intervento
in cui si sosteneva che Peter Handke, l’unico intellettuale di un qualche
peso e notorietà che abbia compiuto lo sforzo di cercar di capire i punti
di vista di entrambi le parti in conflitto, meriterebbe per questo di essere
“liquidato”. Sì, avete sentito bene, liquidato: finished, come
specificava tra parentesi il traduttore, nel timore che qualche possibile
biasimo potesse ricadere su di lui, e non sull’autore della proposta.
Il quale autore, poi, non era un cretino qualsiasi, ma il ben noto
Salman Rushdie, uno che sulla inopportunità di risolvere le controversie
ideologiche liquidando gli scrittori che se ne fanno interpreti dovrebbe
saperne qualcosa. Ma siamo in guerra e in guerra – si sa – di tutto
si ha bisogno fuorché di qualcuno che cerchi di comprendere le ragioni
del nemico.
Un’altra
affermazione straordinaria l’ho letta sulla “Stampa” dell’altro ieri.
Uno storico eminente come George Steiner, richiesto della sua opinione
sulla guerra, risponde che gli sembra “la prima guerra altruista” cui
gli sia capitato di assistere. E di fronte allo stupore dell’intervistatore,
specifica che sì, questa è una guerra altruista perché non si propone conquiste
territoriali o economiche, ma solo quella “ingerenza umanitaria” di cui
parlano Clinton e Blair, e che per di più rappresenta l’avvio della “riconciliazione
dell’Occidente con il proprio passato”, nel senso che i paesi che mezzo
secolo fa hanno permesso, in piena Europa, le nefandezze dell’Olocausto
non hanno potuto “reggere all’idea” che quell’orrore tornasse a compiersi.
Ora,
chi vi parla non è uno storico, ma ha l’impressione che con questa guerra
quei paesi (cui si è aggiunta, guarda un po’, la Germania) stiano riapplicando
pari pari le stesse tecniche che oltre mezzo secolo fa non hanno impedito
l’Olocausto e che infatti oggi non riescono a impedire, ma anzi incrementano,
la pulizia etnica. Ma posso sbagliarmi, naturalmente. Quello
su cui, invece, non credo di sbagliare è la convinzione per cui una guerra
altruista proprio non è possibile. Certo, si può combattere, o sostenere
di combattere a favore di qualcun altro (anzi, dai tempi in cui i romani
scatenavano le guerre puniche per aiutare gli abitanti di Sagunto o conquistavano
la Numidia per difendere Aderbale da Giugurta, non sono stati molti quelli
disposti ad ammettere di combattere soprattutto a proprio vantaggio), ma
in quell’ottica, non c’è santi, per giovare a qualcuno bisogna nuocere
a qualcun altro. E l’altruismo, purtroppo, non è divisibile: o si
è altruisti o non lo si è, e non si può esserlo con certi sì e con certi
altri no.
Il
fatto è che né per Rushdie né per Steiner, che in fondo incarnano, ciascuno
a modo suo, quel modello di pensiero democratico liberal che oggi va per
la maggiore e a cui, non a caso, si richiamano i governi dei principali
paesi in guerra, compreso, ahimè, il nostro, il nemico non è un “altro”
come gli altri, se mi permettete il bisticcio. Se sei democratico
e liberal, dovresti essere anche tollerante e disponibile al dialogo, e
di guerre, in linea di principio, non ne dovresti fare per niente. E
allora quando ne fai una, dovrai ben giustificarti, no? E non puoi
limitarti a dire che il nemico è cattivo: deve essere molto, ma molto cattivo.
L’incarnazione del male, possibilmente. Uno con cui non si
discute e non si tratta, uno le cui ragioni non vanno assolutamente prese
in considerazione, a costo di “liquidare” chi le riferisce, uno che si
può soltanto distruggere. È per questo, in fondo, che Milosevic è
stato promosso, da ambiguo tirannello balcanico qual era fino a pochi mesi
fa (quando gli Stati Uniti, tutto sommato, contavano su di lui) a reincarnazione
contemporanea di Hitler. E che sui serbi (che se lo saranno in gran
parte voluto, figuriamoci, ma non è questo il punto) si esorcizza la colpa
di non essersi opposti, a suo tempo, al nazismo. Come se per “riconciliarsi”
con il proprio passato bisognasse avere a tutti i costi qualcuno da distruggere,
un altro da sé da investire delle proprie colpe. Da questo tipo di
altruismo, credetemi, è meglio tenersi alla larga.
09.05.’99