Strane riforme

La caccia | Trasmessa il: 04/15/2012


Strane riforme

    Questa volta sono stati di parola. Tempo pochi giorni, avevano detto, massimo una settimana, e troveremo l'accordo e in sei giorni, uno in meno di quanto previsto, l'accordo hanno trovato. Nonostante lo scetticismo generale, il celebre trio ABC – Alfano, Bersani, Casini – è riuscito a elaborare la proposta che risolverà in via, si spera, definitiva, lo spinoso problema del finanziamento pubblico dei partiti, che tanto aveva preoccupato, dopo l'esplodere dei casi Lusi e Belsito, i cittadini dabbene. Come nel caso della legge elettorale (di cui ci siamo occupati, ricorderete, domenica scorsa) hanno dimostrato che nel nuovo clima postberlusconiano che vige nella politica nazionale, non c'è questione, sia pur complicata, che con un po' di buona volontà non si possa risolvere.
    Certo, la proposta non è esattamente quella che i cittadini auspicavano o si aspettavano. Nessuno di loro, naturalmente, era tanto ingenuo da pensare che di quel contributo i partiti sarebbero stati disposti a fare a meno, perché così va il mondo, ma molti avevano sperato che si sarebbe in qualche modo trovato un rimedio all'assurdo di un “rimborso” erogato sulla fiducia, senza rendiconti né pezze giustificative e per un importo quattro volte superiore a quello delle spese sostenute. I più si sarebbero accontentati, probabilmente, di una energica sforbiciata, nella consapevolezza che le forze politiche, che dal 1994 a oggi hanno incassato due miliardi e 253 mila euro di fronte a 579 mila euro di spese certificate, abbiano messo da parte quanto basta per resistere qualche tempo senza ulteriormente gravare sul bilancio pubblico. Per questo molti avevano visto con favore la proposta, avanzata da più parti e lanciata con un certo clamore dal “Corriere della Sera” di martedì scorso, di non fargli ritirare a fine maggio l'ultima tranche di 100 milioni destinata ai partecipanti alle elezioni politiche del 2008. La cifra in sé, fatte le debite proporzioni, era abbastanza modesta, ma la rinuncia sarebbe apparsa un segno di disponibilità al cambiamento e lo sa il cielo se, nei frangenti attuali, di un cambiamento qualsiasi non si senta il bisogno.
    Invece niente. Quei soldi i partiti hanno deciso di tenerseli. La scelta di rinunciarvi, come ha fatto notare un esponente del Pd, avrebbe avuto un intollerabile sapore demagogico. Abolito il finanziamento pubblico i partiti avrebbero finito con il dipendere, per le loro necessità finanziarie, dalle varie lobby organizzate, come negli Stati Uniti, e questo “è molto pericoloso”. Per cui la proposta che quelli dell'ABC presenteranno al Parlamento (non è ancora chiaro in che forma) riguarda i bilanci, che dovranno essere trasparenti come il cristallo, e i controlli, che si auspicano rigorosissimi, ma di tagli alle cifre per ora non se ne parla neanche. Si vedrà in futuro, in un quadro di regolamentazione generale del sistema partiti, ma per ora chi ha dato continuerà a dare e chi ha preso continuerà a prendere. Quanto alla tranche di fine maggio, è stato deciso di farla semplicemente “slittare”, il che significa che, passato il minimo tempo indispensabile perché gli elettori non si incazzino troppo, verrà regolarmente incassata e distribuita. A meno che impreviste difficoltà tecniche rendano, ahimè, necessario incassarla subito.
    È strano, però. È da un pezzo che non si fa che parlare di riforme, ma le uniche riforme che nel concreto si propongono sono quelle che lasciano tutto come prima. Esattamente come, qualche giorno fa, gli stessi partiti avevano preteso di accogliere le proteste dei cittadini in tema di legge elettorale riproponendo, in veste leggermente mutata, il contestatissimo modello delle liste bloccate, così adesso si illudono di placare il disgusto dilagante a proposito dei rimborsi pubblici ai partiti stabilendo di continuare a dispensarli nella stessa misura. Le norme sui bilanci e i controlli, naturalmente, sono un'ottima cosa, ma riguardano il modo con cui quei soldi vengono spesi: quello che la gente non sopportava (e continua a non sopportare), invece, è il puro e semplice fatto che venissero elargiti. All'opinione pubblica non è mai andato giù che la classe politica abbia bellamente ignorato i risultati del referendum abrogativo del 1993 e il fatto che, vent'anni dopo, i suoi esponenti continuino a pretendere come se nulla fosse il loro obolo dallo stato non sembra destinato a rafforzare la popolarità, già traballante, dei partiti. E ovviamente una ulteriore crisi di fiducia dei cittadini non gioverebbe esattamente alle sorti della nostra democrazia, già abbastanza malferma in questi tempi di governo dei tecnici. Ma sembra che nessuno, in quell'ambito, riesca a rendersene conto.
    Naturalmente i partiti (tutti i partiti, non solo quelli dell'ABC) hanno un grosso problema: quello per cui l'attività politica, paradossalmente, non costa abbastanza. Non abbastanza, almeno, per consumare tutto il danaro che, spinti dall'avidità e approfittando del pubblico disinteresse, si sono fatti assegnare. In vent'anni i residui attivi di tutti quei soldi si sono accumulati nelle loro casse, formando delle maldefinite ma cospicue giacenze, di cui gli stessi beneficiari hanno finito per essere, in un certo senso, prigionieri. Perché la necessità di gestire discrezionalmente quella massa di danaro ha finito per dare uno straordinario potere discrezionale a quelle curiose figure di amministratori (o “tesorieri”, come li si chiamano adesso) che abbiamo imparato a conoscere e questo, al di là dei giudizi sulle persone, ha portato agli abusi che ci hanno tanto scandalizzato. I soldi, tutto sommato, sono fatti per essere spesi e se non li si possono spendere in modo proprio (nel caso, per far politica) li si spenderanno, di necessità, impropriamente, in spaghetti al caviale, voli in jet privato, ristrutturazione di ville nel Varesotto, mancette al Trota e simili amenità. Da questo punto di vista, la riforma che dovrebbe arrivare in questi giorni alle Camere, con la sua enfasi sui controlli e gli accertamenti, potrebbe persino essere vista come un tentativo di autoriforma, una misura presa dai i partiti contro se stessi, nella speranza di non essere più costretti a dipendere dal Lusi o dal Belsito di turno, di liberarsi dall'umiliante presenza degli “uomini bancomat”. Ma il problema non è di quelli che si risolvono in via regolamentare: finché lo stato continuerà a riversare quattrini nei loro forzieri, il rapporto dei partiti con la società civile sarà irrimediabilmente falsato, la prospettiva della corruzione continuerà a incombere e, in definitiva, la loro autonomia sarà sempre fittizia. Altro che pericolo delle lobby.
15.04.'12