Stirred or Shaken

Racconti | Stirred or Shaken, in "Quarterdeck - la newsletter dello 007 Admiral Club" n. 007, Milano, 2003



Non ho l’abitudine di attaccare bottone con gli sconosciuti al bar, ma il tipo seduto allo sgabello all’altra estremità del banco mi aveva colpito.  Alto, magro, abbronzato, con i folti capelli neri, appena un po’ brizzolati alle tempie, che ricadevano in una specie di ciuffo proprio sopra il sopracciglio destro, i lineamenti tesi, con quella bocca piuttosto crudele e quegli occhi attenti, semichiusi, con una sfumatura di fredda rabbia nello sguardo, che si erano tuttavia rilasciata in una specie di espressione di nostalgia quando aveva chiesto al barman di preparargli un Martini speciale, secondo una ricetta che non avevo mai sentito prima.
      “Un Martini dry” aveva detto, “in una coppa alta da champagne.” Parlava in un francese privo di accento che non doveva, tuttavia, essere la sua lingua madre. “Tre dosi di Gordon’s,” aveva poi precisato meticolosamente, “una di vodka e mezza di Kina Lillet.  Lo scuota bene nello shaker finché sia ghiacciato e poi ci metta una bella fetta sottile di limone.  Tutto chiaro?”

      Il barista aveva annuito, con l’aria di chi apprezza l’idea.  Ma poi si era voltato a dare un’occhiata alle file di bottiglie ordinatamente allineate lungo lo specchio alle sue spalle e si era rivolto al cliente con un tono di rammarico nella voce.

      “Mi spiace, signore” aveva detto.  “A quanto pare non abbiamo la Kina Lillet.  Vuole che proviamo con il Dubonnet?”

      Il tipo aveva scosso le spalle.  “No, lasci perdere” aveva detto.  “Mi faccia un Martini normale.  Vodka, secco, con buccia di limone.  E agitato, non mescolato, mi raccomando.”

      Mentre il barman si metteva al lavoro, l’uomo dalla bocca crudele si era guardato attorno e si era accorto che lo stavo fissando.  Mi aveva rivolto un mezzo sorriso di scusa, come se fosse stato sorpreso a commettere un’azione in qualche modo riprovevole.

      “Le vecchie abitudini sono dure a morire” aveva detto.  “Ma ormai la Kina Lillet non si trova più da nessuna parte.”

      “Sì” avevo annuito, comprensivo.  “Peccato.  Una punta di amaro, nel Martini, ogni tanto piace anche a me.”

      “Be’, non era esattamente un Martini che avevo ordinato.  È una cosa che ho inventato io, tanti anni fa.”

      “Come si chiama?” avevo chiesto educatamente.  Non ero completamente  sicuro dell’utilità di mescolare tre parti di gin e una di vodka, ma, nel complesso, l’idea mi sembrava interessante.

      “Il Ves…” aveva cominciato il mio interlocutore, poi si era interrotto, come se gli fosse venuto in mente qualcosa di spiacevole o di doloroso.  “Non ha un nome” aveva concluso sbrigativamente.  “È solo una cosa da bere all’ora del tramonto.  Anzi, era, perché senza la Kina Lillet non si può più fare.”

      A questo punto il barman gli aveva messo davanti il suo Martini.  Il tipo, stranamente, aveva pagato subito il conto.  Poi mi aveva sorriso e si era portato il bicchiere alle labbra.

      Il primo sorso di Martini della giornata è sacro, per cui lo avevo lasciato in pace.  E visto che avevo finito il mio, feci cenno al barista di prepararmene un altro.        Si crea una specie di familiarità, comunque, tra due persone sedute al banco nel bar deserto di un grande albergo.  In quel tardo pomeriggio di settembre, reso più freddo dal vento che spingeva le onde grigie del Mare del Nord contro il molo, era fatale che la nostra conversazione, presto o tardi, riprendesse.  E ci pensò il barman a creare l’occasione.

      “Ecco il suo Martini, monsieur” sentì il  bisogno di dire, porgendomi il bicchiere e una coppetta di noccioline di cui, a dire il vero, non sentivo affatto il bisogno.  “Tanqueray’s, né limone né oliva, mescolato.”

      Il tipo sorrise, guardandomi con quel suo sguardo penetrante.  “Lei è più tradizionalista di me” osservò.

      A dire il vero, era lui ad avere un aspetto, se non tradizionalista, piuttosto convenzionale, con quel completo blu scuro, la camicia di seta pesante con una cravatta nera sottile di maglia di seta, i mocassini e i calzini in tinta.   Ma bastava l’espressione intensa del suo volto, per far capire che non si trattava né del funzionario di una compagnia di esportazioni né del solito manager in vacanza.
      “Sì” risposi sentendomi, chissà perché, vagamente  imbarazzato.  “A me il Martini è sempre piaciuto con il gin.  Ma non ho niente neanche contro la vodka, mi creda. Certo, secondo i sacri testi andrebbe bevuta liscia, con il salmone e il caviale.  Ma di vodka veramente buona da bere liscia non se ne trova più.  Anche la Stolichnaya, ormai, non è un gran che.  La Wolfschmidt di Riga, certo… ma è roba di prima della guerra, ormai. ”

      L’accenno sembrò destare il suo interesse.

      “L’ho assaggiata, una volta” mi confidò.  In un club di Londra.  Lì la servono ancora nella caraffa piccola, in un secchiello di ghiaccio triturato.  Mi è piaciuta, ma quando bevo la vodka liscia ho l’abitudine di metterci un pizzico di pepe nero e questo modifica un po’ il gusto.”

”Un pizzico di pepe nero?”

      Annuì, con indifferenza.  “Me l’hanno insegnato certi russi, a Mosca, e ormai ci ho preso l’abitudine.  Vede, i granelli, nello scendere verso il fondo si portano via l’alcool amilico e le altre sostanze nocive.”  Si lasciò sfuggire un sorriso.  “Ma quella volta non avrei dovuto farlo, forse.  Il mio ospite si è quasi offeso”

      Lo capivo benissimo, poveretto.  “La vodka è una bevanda molto versatile” dissi, per cambiare discorso.  C’è persino chi la beve con l’acqua tonica.”

      “A me con l’acqua tonica non dispiace, nei climi caldi.  Ma con tanta angostura.”

      Rabbrividii fra me e me.  “Ha delle abitudine internazionali” non trovai di meglio che dire.

      “Mi capita spesso di andare all’estero” confermò lui, sbrigativo.

      “Certo, certo… ” annuii.  “Ma il gin and tonic, comunque…  Lei è inglese, no?”

      Fece  un cenno di assenso.  “Per essere proprio precisi, sono scozzese.  E mia madre era svizzera.  Ma non bevo molto gin, se alludevo a questo.  E, in realtà, preferisco il bourbon allo scotch.”

      Il bourbon piace anche a me.  “Non era a questo che alludevo” spiegai.  “Il fatto è che prima non ho potuto fare a meno di ascoltare quando ha ordinato il suo Martini.  Agitato.”

      “E allora?”

      “Be’, è in America che usano lo shaker no?  In Europa lo mescoliamo nel mixer.”

      “Non credo che ci sia una distinzione così precisa.  E il Martini, comunque, lo hanno inventato gli americani.”

      “Così si dice” ammisi, di malavoglia.  In realtà, non ne sono mai stato così sicuro: in fondo il vermut è europeo, e il gin anche.  Anche la vodka, quanto a questo.   “Ma ho sempre pensato, se mi permette, che shakerare il Martini fosse…  per così dire…  un po’ inutile.”

      “In che senso?”

      “Be’, lo shaker serve per… diciamo, per compenetrare degli ingredienti che non si mescolano tra loro così facilmente.  È indispensabile quando c’è di mezzo del succo di agrumi, come nei sour e nel Daiquiri, o quando bisogna sciogliere nella base dei liquori un po’ spessi…  Per quella sua ricetta speciale, con il Kina Lillet, per esempio, era assolutamente indispensabile.  Ma il vermut dry e la vodka, o il gin, si mescolano benissimo nel bicchierone.  Ha visto come lavora il nostro barman, no?  Versa il vermut sul ghiaccio, lo gira un paio di volte con il cucchiaio lungo, poi lo scola via e versa la base sul ghiaccio aromatizzato.  È così che si fa oggi e con la shaker non si può.”

      “Sì, lo so che fanno tutti così, oggi.  Ma non credo di essere completamente d’accordo.  A me piace un Martini un poco più aromatico…  diciamo una parte di vermut su sei o sette di vodka.   Su otto, al massimo.”

      Tutti i gusti sono gusti.  “D’accordo” acconsentii.  “Eppure…”  Esitai un momento e poi mi lanciai.  “Conosce Maugham?  Wiliam Somerset Maugham?”

      “Lo scrittore?  Non leggo molto…  ma, sì, Maugham un po’ lo conosco.”

      “Io lo adoro” confessai.   “È un po’ fuori moda, d’accordo, un uomo di altri tempi, naturalmente, ma i suoi libri sono ancora così affascinanti…  Ho riletto Ashenden almeno sei volte.”

      “Ashenden?”

      “Non lo conosce?  È forse la migliore raccolta di racconti di spionaggio che sia mai stata pubblicata.”

      “Di spionaggio?  Davvero?”  Il suo volto assunse un’espressione indefinibile.  Sa, non mi occupo molto di queste cose.”

      “Sì, certo, capisco.  Ma lo spionaggio ai tempi di Ashenden doveva essere una cosa tutta diversa da oggi.  In ogni caso, c’è una frase di Maugham che ho sempre ammirato.  La ricorda suo nipote Robin in Conversation with Willie”.  Diceva che ‘il Martini non va messo mai nello shaker.  Va solo mescolato in modo che le molecole si adagino sensualmente l’una sull’altra’.  Non lo trova straordinariamente ben detto?”

      “Che si adagino sensualmente l’una sull’altra?   Sì, è molto ben detto.”

      “Vero?”

      “Ma non credo di essere d’accordo.  Capisco il suo punto di vista, ma il Martini per me è un’altra cosa.  Vede, io viaggio molto spesso da solo e, per un motivo o per l’altro, devo stare attento a quello che mi succede attorno.  E quando sono… come dire… concentrato, non bevo mai più di un bicchiere prima di cena.  Ma lo voglio molto abbondante, molto forte e molto freddo, e fatto anche molto bene.  E, soprattutto, non voglio nulla che si adagi sensualmente sulle mie molecole, non so se mi spiego.”

      Aveva un tono nuovo nella voce, che mi spinse a guardarlo con maggiore attenzione.  Solo allora notai  la cicatrice che spiccava sulla pelle abbronzata della guancia destra.  Poteva essersela fatta in qualsiasi modo, naturalmente, in un incidente automobilistico o cadendo durante una discesa in sci, ma, chissà perché, rendeva il suo aspetto piuttosto inquietante.

      “Mi scusi” mi affrettai a dire.  “Non volevo…”

      Lui aveva finito il suo vodka Martini secco.  “Non c’è niente di cui si debba scusare” ribatté in tono abbastanza cortese.  “Gli scrittori sono scrittori.  Vivono sempre un po’ fuori dal mondo.”

      “Maugham è stato anche un uomo di azione” sentii il bisogno di dire.  “Sembra che Ashenden sia basato sulle sue esperienze di agente segreto durante la prima guerra mondiale.”

      Ridacchiò.  “Ah, la prima guerra mondiale” commentò, con un tono stranamente condiscendente.”

      Non sapevo cosa rispondergli, per cui mi limitai a stare zitto.

      “Devo andare, adesso” mi comunicò il mio interlocutore.   “È stato un piacere conoscerla.”

      “Il piacere è stato mio” gli assicurai.  “Stasera parto, ma spero di rivederla, prima o poi.”

      “Torno sempre qui a Royale almeno una volta all’anno” mi disse, stringendomi la mano.  Poi mi disse il suo nome: il cognome prima, poi, dopo una brevissima pausa,  il nome proprio e il cognome insieme.  Entrambi mi sembrarono vagamente familiari, ma non avrei saputo dire il perché.

      Feci un cenno al barman di portarmi il terzo Martini e restai a guardarlo mentre usciva a larghi passi dal bar.   Un uomo deciso, pericoloso, mi dissi.  Un uomo che sapeva vivere la propria vita secondo le proprie regole e che, se gli piacevano i Martini agitati e non mescolati, li avrebbe sempre ordinati agitati e non mescolati, in barba a tutte le norme e le consuetudini.  Mi accorsi che il sentimento che provavo era soprattutto di invidia.

      Chissà cosa faceva quel tipo per vivere.

Stirred or Shaken, in "Quarterdeck - la newsletter dello 007 Admiral Club" n. 007, Milano, 2003