Speranze deluse e difficili previsioni

La caccia | Trasmessa il: 05/16/1999



Scagli la prima pietra chi, tra gli affezionati ascoltatori della “Caccia”, giovedì scorso non si è lasciato sfiorare dalla speranza, da una speranza vaga, segreta e accuratamente inespressa, che il buon Carlo Azeglio Ciampi, nonostante tutto, non ce la facesse: che al primo scrutinio non ottenesse quella valanga di voti che l’accordo tra il Polo e l’Ulivo (ammesso che questi due strani termini abbiano ancora ragione di esistere) sulla carta gli garantiva.  Una speranza, in fondo, tutt’altro che peregrina, perché a spoglio effettuato si è visto che il neopresidente dei duecento e passa voti di agio sul quorum che in teoria gli si accreditavano ne aveva raccolto solo trentatré, e tutti sappiamo che se non fosse passato al primo scrutinio ben difficilmente sarebbe arrivato alla meta, e una speranza di cui, forse, ci saremmo rammaricati per primi se si fosse realizzata, ma una speranza – inutile negarlo – che ci ha segretamente sfiorati tutti.  E non perché qualcuno di noi, dio ne scampi, avesse motivo di favorire i disegni di Franco Marini, o perché a Ciampi preferissimo veder insediato sul Colle uno dei suoi improbabili e un po’ patetici concorrenti.   Nessuno di noi si azzarderebbe a negare i meriti dell’economista insigne, dell’irriducibile laico e dell’antifascista della prima ora, e se pure preferiremmo un economista che, oltre che della solidità della moneta, si preoccupasse ogni tanto di una sua meno iniqua distribuzione, e un laico che non avesse fatto una così prestigiosa carriera pubblica ai tempi del potere democristiano, e un antifascista che non dovesse dipendere, per essere eletto, dai voti determinanti di Alleanza Nazionale, sappiamo che nella vita non si può avere tutto.  È da tre giorni che tutti ci assicurano che il Carlo Azeglio è il migliore dei presidenti possibili, un giudizio su cui convergono, oltre che partiti e giornali, i vescovi, il Grande Oriente, il Comitato dei 10 Nobel e i pescivendoli di Santa Severa, e non intendiamo certo mettere in discussione tanta unanimità.   Siamo certi che tutti avranno i loro buoni motivi.
        Eppure, ammettiamolo, c’è qualcosa che ancora non ci convince.  Forse il sospetto che il Presidente della Repubblica, anche se “rappresenta l’unità nazionale”, come recita la Costituzione all’articolo 87, non per questo debba essere espresso all’unanimità, o quasi.  Dell’unanimità, in politica, è sempre cosa saggia diffidare e la funzione del Presidente, nonostante l’altezza della sua posizione, resta pur sempre politica.  Quando i nodi vengono al pettine, deve schierarsi anche lui.  E visto che il capo dello stato, come qualsiasi organo elettivo, deve comunque “rispondere” al suo elettorato, l’idea di un Presidente tenuto a esprimere contemporaneamente le ragioni della destra e quelle della sinistra, impossibilitato a formulare una scelta a rischio di scontentare una parte che comunque a lui si riferisce, chissà perché, non ci tranquillizza affatto.
        Sì, d’accordo, ci ribattono, tutto questo sarà vero in teoria, ma – ahimè – c’è la guerra.  E con una guerra in corso non ci potevamo certo permettere lo spettacolo di un Parlamento diviso, spaccato in due, incapace di eleggere un Presidente della Repubblica.  Il voto di giovedì ha confermato l’unità e l’impegno con cui il Paese affronta questo momento drammatico.
        Ecco: forse è proprio per questo, a pensarci bene, che non ci siamo.  E non solo perché quanto è più grave il problema all’ordine del giorno (e pochi problemi possono essere più gravi di quello della guerra), tanto è più auspicabile che ci si divida, che ciascuno si schieri e dica la sua senza mezzi termini.  Ma perché sulla guerra il nuovo Presidente della Repubblica è stato praticamente l’unico uomo politico di un certo peso (e l’unico candidato all’alta carica), che non ha detto niente.  Non una singola, solitaria parola.  Non ha espresso una speranza di pace, e non era tenuto a farlo, e non si è schierato con quanti si sono assunti la responsabilità di attaccare.  Ha taciuto.  Sicuramente ci chiarirà quanto prima il suo illuminato parere, probabilmente in occasione del discorso di insediamento previsto per il prossimo martedì, ma dire quel che si pensa dopo aver portato a casa il risultato è un po’ troppo facile: l’argomento non è di quelli su cui si possa invocare la necessità del riserbo.   Quando è fin troppo evidente che a parlare si scontenterebbe comunque qualcuno, qualcuno in grado di controllare dei voti, il riserbo rischia di sfumare nell’opportunismo.  Non esattamente la dote che si dovrebbe auspicare in un Presidente della Repubblica.

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Oh, a proposito.  Non sono stati in moltissimi a osservare che, da qualche anno a questa parte, ogni elezione alla Presidenza della Repubblica ha assunto un carattere, come dire, altamente aleatorio.  È dal 1978, in fondo, che i presidenti vengono scelti soprattutto per contrasto con il loro immediato predecessore.  Pertini fu eletto, contro tutti i pronostici, perché si aveva disperatamente bisogno di qualcuno che incarnasse un tipo politico opposto a quello del notabile democristiano stile Leone; Cossiga ascese al Colle perché i grandi elettori, pur senza dichiararlo, cercavano qualcuno più rispettoso di Pertini delle ritualità politiche di un sistema parlamentare e Scalfaro fu selezionato in nome di una sua supposta riluttanza a quelle incontrollabili “esternazioni” e alle imprevedibili iniziative che avevano caratterizzato il settennato di Cossiga.  E tutti sappiamo che, se con Pertini la scommessa pagò anche troppo, con gli altri due fu un tonfo clamoroso: Cossiga non fece altro che portare il pertinismo alle sue ovvie conseguenze e Scalfaro cominciò dove Cossiga si era fermato.  Anche Ciampi, mi sembra di capire, deve le sue fortune al fatto che lo si suppone orientato in senso meno “centrista” e meno parlamentarista di Scalfaro, meno propenso, in buona sostanza, ai vari modelli di ribaltone e più deciso ad attenersi alle leggi non scritte del bipolarismo.   Vista l’esperienza del passato, a chi ha ragionato in tal modo  non saprei consigliare altro che tenere le dita saldamente incrociate.

16.05.’99