Un tempo, tanti anni fa, “casino”
era, se non proprio una parolaccia, un termine che era meglio non usare
in società: una parola che a nessun patto poteva fiorire sulle labbra dei
giovani beneducati o delle giovinette dabbene. Lo si usava, quando
lo si usava, per ostentare o sottolineare davanti agli altri una certa
spregiudicatezza ideologica e personale, ma era un’operazione che si compiva
a proprio rischio e pericolo, nel senso che gli interlocutori potevano
aversene a male (o fingere di aversene a male) e tagliarti fuori dal loro
universo dialogico, il che normalmente non è un grosso rischio, ma se quegli
interlocutori hanno una qualche autorevolezza sul piano sociale può comportare
delle conseguenze sgradevoli. E lo si evitava con cura, naturalmente,
quando si voleva esprimere rispetto o riverenza verso coloro cui ci si
rivolgeva.
Eppure,
etimologicamente parlando, si trattava (e si tratta) della più innocua
delle parole. È un normalissimo diminutivo da “casa”, utilizzato,
al maschile, per indicare un “piccolo edificio”, una “costruzione di
modeste dimensioni”. Ma il problema, naturalmente, è quello di cosa
si va a fare in una struttura edilizia di tal fatta. Nella letteratura
del XVIII secolo, così, il casino, o il “casinetto”, era una costruzione
collocata in un parco, o in un giardino, e veniva frequentato, in genere,
a scopo di svago. Niente d male, naturalmente, ma c’è svago e svago.
Ci si poteva andare ad ascoltare una serenata di Mozart, o fare come
don Giovanni, che, al dire dell’abate Da Ponte, cercava di attirarvi,
con le più disdicevoli delle intenzioni, Zerlina prima e la cameriera di
donna Elvira poi. E visto che di don Giovanni, notoriamente, ce n’è
uno solo, ma di intenzioni disdicevoli siamo piuttosto provvisti tutti,
il termine, com’è e come non è, ha finito con l’assumere, almeno nell’uso
settentrionale, il senso specifico di “luogo di abiezione”. Fino
a un mezzo secolo fa, per gli italiani del nord un casino, in buona sostanza,
era quello che in lingua corretta si sarebbe dovuto definire un postribolo,
o un lupanare, un’istituzione, cioè, che pur essendo largamente diffusa
sul territorio e regolamentata da apposite leggi non era il caso di menzionare
in pubblico.
Poi, si sa, tutto cambia. Le consuetudini
sociali si evolvono, le leggi e le istituzioni si adeguano all’evoluzione
e i significati delle parole anche. Siccome in quei luoghi, a quanto
si dice, era piuttosto difficile che i frequentatori tenessero un comportamento
austero e contegnoso, il termine è passato, poco per volta, a indicare
semplicemente uno stato di confusione o di trambusto. E visto che
nella confusione e nel trambusto non è mai facile realizzare i propri obiettivi,
è invalso anche l’uso di indicare con quell’espressione qualsiasi proposito
di difficile praticabilità. Come si fa a combinare qualcosa con tutto
questo casino, ci si chiede l’un l’altro, senza voler alludere affatto
al mercimonio sessuale, ma per significare soltanto che tutt’attorno si
fa un gran chiasso, o c’è molto disordine. Eh sì, può capitare di
sentirsi rispondere, è davvero un casino. Certo, espressioni di questo
genere hanno implicita in sé una certa dose di ambivalenza, per cui si
può sempre dire di qualcosa che ti piace un casino, ma questo, in ultima
analisi, significa soltanto incasinare una situazione che, dal punto di
vista semantico, è già abbastanza incasinata per conto suo.
È tutto un problema, appunto, di slittamenti
semantici. Ci balocchiamo da sempre con le stesse, poche parole,
ma con un’inesausta attività di categorizzazione e ricategorizzazione
ne modifichiamo continuamente il significato e l’ambito d’uso,
trasferendo con indifferenza lo stesso significante dalla suburra all’accademia
e dall’accademia di nuovo alla suburra. E di solito ci rendiamo
conto del fenomeno solo quando, ormai, è un fatto acquisito. Ricordo
ancora lo stupore che provai, verso la metà degli anni ’70, quando un
vecchio, seriosissimo preside, con il quale ero in polemica praticamente
su tutto e che consideravo, culturalmente parlando, poco più che un relitto
del mesozoico, mi chiese se non pensassi anch’io che gli studenti esagerassero,
in quella tal circostanza, nel fare tutto quel casino. Non ricordo
cosa gli risposi, ma certamente pensai che non ci si poteva fidare più
di nessuno. Se quel venerabile fossile poteva parlare a suo bell’agio
di casini con un interlocutore cui non lo legava nessuna intimità particolare,
voleva dire che i tempi erano davvero cambiati e il vocabolario con loro.
Eppure, forse la situazione è un poco
più complicata. Non si spiegherebbe, se no, il disagio che impercettibilmente
mi ha preso, e suppongo abbia preso anche voi, di fronte a quelle affiches
pubblicitarie che annunciano, dalla fiancata di tutti i mezzi pubblici,
che “la casa non è più un casino”, nel senso – suppongo – che chiunque,
rivolgendosi all’indirizzo elettronico ivi reclamizzato, dovrebbe scoprire
che trovar casa, ormai, è diventata la cosa più semplice del mondo.
Non solo perché non ci credo, e sono anzi convinto che, con i prezzi che
ballano, trovare una casa sia più che mai un casino, ma perché mi sembra
che, alla fin fine, quello slogan ci riporti indietro nel tempo. Chi
lo ha creato, evidentemente, puntava, oltre che sul falso diminutivo, che
come gioco di parole non è un granché, sul facile effetto di scandalo
legato a quel tanto (o a quel poco) di sconveniente che l’espressione
conserva tuttora. Forse a scandalizzarmi sono stato soltanto io,
che detesto la pubblicità allusiva, ma il problema, naturalmente, non è
questo. Il problema è che le parole, nel loro peregrinare da un significato
all’altro, si portano sempre dietro, come a livello residuale, qualcosa
di quello che lasciano. Lo slittamento, insomma, non è mai radicale
e come chi va al mulino, comunque, s’infarina, così chi parla di casini
finisce con l’incasinarsi. Nell’attesa di affrontare il problema
a un livello teorico adeguato, mi piacerebbe ritrovare quel vecchio preside
e chiedergli cosa ne pensa.
Carlo Oliva, 11.03.’01