Simmetrie

Racconti | Simmetrie, in Innamorati da morire, Todaro, Lugano, 2002



Simmetrie

Alza il bicchiere, beve un sorso, mi guarda e sorride.
        “È così terribile?” chiede.
        Le ricambio il sorriso e mi guardo intorno.  Sala semibuia, lume di candela, gente elegante.  Molte coppie, naturalmente, di età variabile, anche se, tendenzialmente, sul giovane.  Però ci sono anche due o tre tavolate e in un una, giuro, sono addirittura dispari.  Li ho contati prima, mentre aspettavo.
        “Ma no” rispondo.  “Niente di tremendo, figurati.  Solo… mi sembrava un’idea un po’ strana.  Festeggiare san Valentino così,  in pubblico, sai…  ai miei tempi non si usava.”
        Non avrei dovuto lasciarmi sfuggire quel “ai miei tempi”.   È un’espressione che, di solito, la irrita terribilmente.  Anche se, a pensarci bene, quello che dovrebbe reagire male a ogni possibile accenno alla nostra differenza di età dovrei essere io.   Invece no: è lei che non vuole che se ne parli.  Ma questa volta sembra non raccogliere.
        “Sei ancora fortunato” dice.  “Ti sei risparmiato la discoteca.”
        Sì, lo so che oggi, oltre alle cene di san Valentino in ristorante, fanno le feste di san Valentino in discoteca.  Ma quello che troppo è troppo e deve essersene reso conto anche lei.  Rabbrividisco ostentatamente e bevo un altro sorso di vino.  Non è niente di speciale: il solito chardonnais.
        “E cosa facevate per san Valentino, ai tuoi tempi” mi chiede lei all’improvviso, in tono leggermente canzonatorio.  Evidentemente la frase di prima non le era sfuggita affatto.
        “Be’” rispondo, un po’ esitante, “niente di speciale.  Non è che la considerassimo una festa vera e propria, una ricorrenza seria come le altre.  Il più delle volte non ce ne accorgevamo nemmeno.  Al massimo…  al massimo poteva essere l’occasione per farsi un paio di coccole in più, o per scambiarsi dei piccoli regali innocui…”
        “Una scatola di cioccolatini di quelli con li biglietti con le citazioni?”
        Sorrido.  “No, quello sarebbe stato davvero troppo.  Né i cioccolatini con le citazioni né i libri con i fidanzatini di Peynet.”  Colgo un lampo di perplessità nel suo sguardo e capisco che i fidanzatini di Peynet, per lei, non significano assolutamente niente.  “I soliti regali” proseguo, frugando nella memoria.   “Un foulard… una cravatta… una coppia di animaletti di peluche… al massimo una spilla di pietre dure o un portaritratti di argento mignon, delle cose così.  In fondo, allora ci accontentavamo di poco.”
        Mi rendo conto che avrei fatto meglio a non citare affatto i portaritratti di argento mignon.  Ce n’è uno in casa, sulla mensola con gli oggettini in salotto e non vorrei che le saltasse in mente di chiedermi chi me l’ha regalato.  “E poi” proseguo in fretta ”poi, naturalmente, andavamo a cena fuori.”
        “Vedi” commenta lei, sbrigativa.  “E a cena fuori sei finito anche oggi.  Niente di nuovo sotto il sole.”
        Sono discorsi, in realtà, che mi mettono a disagio.  Differenza di età o non differenza di età, di solito del passato preferiamo non parlare.

Per fortuna è arrivato a interromperci il cameriere con il primo.   Risotto allo champagne con tartufi, è scritto sul menù a forma di cuore che abbiamo trovato sul tavolo, anche se sullo champagne non sarei disposto a giurare e se i tartufi, a febbraio, saranno, come minimo, conservati.   Ma ho già capito fin dall’antipasto (due gamberetti, un crostino con una fettina di paté e una cucchiaiata di finto caviale) che siamo finiti in  uno di quei posti dove si fa molta scena,  ma la cucina è l’ultima cosa che conta.   Anche l’aperitivo, un flûte di spumante con dentro qualcosa di troppo rosa e troppo dolce (una specie di kir, in effetti, ma naturalmente lo hanno battezzato La vie en rose) non faceva prevedere niente di buono.
        Mangiamo in silenzio, per qualche minuto.  Attorno, nonostante le candele, i fiori sui tavoli, i violini in sottofondo e i cuoricini sparsi dappertutto, l’atmosfera non è precisamente romantica.   Quelli delle tavolate sono tutti allegrissimi e chiacchierano e ridono come se fossero a una cena tra colleghi.  Tra le coppie, invece, ce ne sono due o tre con l’aria decisamente annoiata e ogni tanto un lui o una lei rompe il silenzio tirando fuori il telefonino.  La ragazza al tavolo accanto al nostro, per esempio, è impegnata da almeno mezz’ora in una conversazione che sembra interessarla moltissimo, mentre il suo accompagnatore la fissa, paziente, con uno sguardo sempre più depresso.
         Scherziamo tra noi, chiedendoci a chi stia telefonando la nostra vicina.  Magari sta parlando con fidanzato in carica: lui è fuori per lavoro, in Australia o da qualche parte del genere, e si sono dati un appuntamento telefonico all’ora di cena.  Il tipo con lei dev’essere il solito vecchio amico gentile che l’ha portata fuori perché non si sentisse troppo sola.   Oppure, ipotizzo io, lei sta facendo una specie di doppio gioco, nel senso che di fidanzati ne ha due e anche se è uscita con uno non rinuncia a tenersi in contatto con l’altro.  Con i tempi che corrono, succede anche di peggio.
        “Dai” mi rimprovera.  “Non devi dire queste cose.  Pensa cosa potrebbero pensare  gli altri di noi.”
        Non vedo cosa potrebbero pensare di particolare.  In fondo, siamo una coppia come tante altre.  La differenza di età è un fattore soprattutto mentale.   Io non sono poi così vecchio e lei, ormai, non è più una bambina.   Di gente come noi, tutto sommato, se ne vede in giro parecchia.
        Comunque, non è il caso di mettersi a polemizzare.  Faccio finta di niente e le chiedo come abbia passato la giornata.  Sono venuto al ristorante direttamente dall’ufficio e non la vedo da stamattina.
        “Niente di speciale” mi dice.  “Un paio di lezioni al mattino e il solito seminario del venerdì pomeriggio.  Poi ho dovuto tornare a casa a cambiarmi.”
        Già.  Adesso che me ne rendo conto, questa sera si è messa più elegante del solito.  Normalmente, quando usciamo insieme, non va più in là della solita giacca di pelle.   Adesso ha fatto uno sforzo speciale: un abito di velluto nero che non le avevo mai visto addosso e che le sta particolarmente bene.  Si è anche truccata un filo e si è messa qualche goccia di profumo.
        È bellissima.
        “Un seminario?” le chiedo, senza fare commenti sul suo aspetto.  “E su che cos’era?”
        Da quando ha ricominciato a frequentare l’Università, devo dire, mi sento piuttosto sollevato.  Vuol dire che la situazione si sta normalizzando.  Ma è una cosa di cui mi parla malvolentieri, come se pensasse che di quello che fa io non mi debba preoccupare.  In effetti, non sono suo padre.
        “Antropologia culturale” si limita a rispondere.  Poi resta zitta per qualche minuto.
È di cattivo umore, anche se cerca di non farlo capire. L’ambiente, certo, non è entusiasmante: avevo ragione io a non volere venire per tutto l’oro del mondo. È stata lei a insistere perché uscissimo insieme stasera, anzi, perché andassimo proprio alla cena di san Valentino.  Per una volta, ha continuato a ripetere, avremmo potuto mettere il naso fuori, invece di starcene chiusi in casa come al solito.  E so fin troppo bene, per esperienza, che quando lei si mette in mente qualcosa, è inutile cercare di opporsi.
A pensarci bene, quasi quasi, sarebbe stato meglio la discoteca.
        “Ai…  quando andavo io all’Università,” commento, “antropologia culturale non c’era.  Era una cosa che insegnavano a Parigi, alla Sorbona.  O a Berkeley, se ricordo bene.  Io ero in un’altra facoltà, naturalmente, ma avevo un amico che mi faceva una testa così…”
Devo stare più attento.  Stavo per dire di nuovo “ai miei tempi” e mi sono bloccato in extremis.
        “Da noi è un corso fondamentale” spiega lei, in tono neutro.  “E i seminari sono interessanti.”
        “Questo che segui adesso di che cosa tratta?”
        Mi guarda con un filo d’impazienza, come se le mie domande le dessero fastidio.  “Del folclore nella tragedia greca.”
        “Il… folclore nella tragedia greca?”
A occhio e croce, non mi sembra un argomento particolarmente entusiasmante.
“Sì, il folclore.  O piuttosto, gli elementi di folclore nella tragedia greca.”
Non capisco bene la distinzione.
“Vuol dire che alcune delle storie raccontate dai tragici sono la rielaborazione di certi motivi, che conosciamo anche dalla tradizione folcloristica.   Dalle fiabe, in sostanza.   La storia di Edipo, da questo punto di vista, è identica a quella di Pollicino.”
“Pollicino?  Ma Edipo non era quello del complesso?”  Non è un commento particolarmente brillante, ma lei non ci bada.
“Sì, in Sofocle sì.  Ma il mito di Edipo, la sua storia personale, era una cosa piuttosto diversa.  Era stato abbandonato da piccolo sui monti, poi qualcuno lo aveva salvato e così era cresciuto, aveva ucciso la Sfinge ed era diventato re.   Anche Pollicino è stato abbandonato nel bosco, ha ucciso l’Orco cattivo ed è diventato, in un certo senso, il capofamiglia.”
Che strane cose si studiano oggi nelle Università.
“È una storia di morte e rinascita” continua lei, infervorandosi.  “Gli antropologi lo chiamano un mito di iniziazione.  L’eroe deve morire – il fatto di essere abbandonato, in questi contesti, vuol dire più o meno questo – per rinascere e realizzare se stesso.  Secondo alcuni è la metafora di una fase della vita dell’uomo, il passaggio dallo stato infantile a quello adulto.  In fondo è logico: se ci pensi, il bambino deve morire in quanto tale per rinascere come adulto.  Infatti i riti di passaggio, quelli che in certe società segnano l’ingresso dell’individuo nella società adulta, prevedono spesso una qualche forma di morte simbolica.  Un abbandono, appunto, o una forma simulata di seppellimento.  È una vecchia ipotesi dell’antropologia culturale, anzi, quasi un postulato, che tra riti e miti ci sia una connessione piuttosto stretta.”
Il tono è un po’ dottorale, ma è sempre un piacere sentirla quando si appassiona a qualcosa.  E sono anche contento che abbia smesso di parlare di Edipo.  È un argomento, quello, che per un motivo o per l’altro mi rende nervoso.
“Anche Pinocchio muore come burattino per rinascere come essere umano” mi azzardo a commentare.
Si illumina tutta.  Mi sono meritato un bel voto.  “Sì, anche Pinocchio” conferma.  “E Superman, che viene abbandonato da bambino nella capsula spaziale.  E anche Terry McCaleb, in un certo senso.  Di storie di morte e rinascita se ne scrivono sempre, anche senza saperlo.”
Non ho la minima idea di chi sia questo Terry McCaleb, ma non importa.  Sarà il protagonista di qualche mito scozzese.  Intanto il cameriere ha tolto i piatti del primo e ci ha portato il secondo.  Cotolettine di agnello, per me: hanno un’aria meno minacciosa di quanto temessi.  Lei, invece, ha scelto la sogliola.
“È di questo che vi siete occupati oggi?  Di morte e rinascita?” chiedo, cominciando a mangiare.
Lei spezza un grissino.  “No” dice.  “Oggi abbiamo parlato d’altro.”
Niente da fare.  Neanche l’agnello, tutto sommato, è un gran che.  La povera bestia deve essere arrivata a piedi dalla Nuova Zelanda.
“E invece?” chiedo.
“Niente di speciale.  Com’è la tua carne?”
Si direbbe che abbia voglia di cambiare argomento.  Strano, fino a un minuto fa era così entusiasta del suo seminario.
“Non è male.”  Non è vero, ma è inutile stare a lamentarsi.
Lei mangia un pezzetto di sogliola e raccoglie un poco di salsa con il  mezzo grissino.
“Non è detto che ci sia sempre una rinascita” dice in tono strano, come se parlasse a se stessa.
Lo so anch’io che si rinasce soltanto nelle favole.  Ma cosa le è venuto in mente, adesso?
“Vedi” comincia lei, sempre con quel tono strano nella voce, “quando Giuseppe fu venduto dai suoi fratelli in Egitto, finì come amministratore nella casa di un certo Potifar, o Putifarre, capitano delle guardie del Faraone.”
“Giuseppe?” chiedo io.  “Giuseppe chi?”
“Giuseppe.  Il figlio prediletto di Giacobbe.  Quello della Bibbia.  Non hai mai letto la Bibbia?”
No, le confesso che, a dire il vero, non ho mai letto la Bibbia, anche se questa storia di Giuseppe venduto dai suoi fratelli ho la vaga impressione di ricordarmela.  L’avrò vista in un film, o in televisione.
“Giuseppe, evidentemente, come amministratore era molto bravo” prosegue lei.  “La Genesi dice che ‘l’Eterno per amor suo benedisse la casa dell’Egiziano’ che, quindi, finì per lasciargli in mano tutti i suoi affari.”
“È di questo che avete parlato oggi?”
Fa un cenno di assenso.
“Ma non mi hai detto che vi occupavate di tragedie greche e di favole?  Cosa c’entra la Bibbia?”
“Anche nella Bibbia ci sono parecchi motivi che vengono dal folclore.  E la Grecia e la Palestina non sono poi così lontane.  Alcuni di quei motivi si ritrovano nelle tragedie greche.  Come quello di Putifarre.”
“Di Putifarre o di Giuseppe?”
“Di tutte e due, in effetti.  Ma gli antropologi lo chiamano il ‘motivo di Putifarre’: das Potiphar Motiv, in tedesco.”
“Che cosa?  Che uno si ritrova in casa un amministratore bravissimo che fa andare tutto a gonfie vele e gli lascia in mano i suoi affari?  Ti assicuro che piacerebbe anche a me.”
“Questo è solo l’inizio” mi spiega lei con un mezzo sorriso.  “Il fatto è che Giuseppe non era soltanto molto bravo negli affari.  Era anche, come dice la Bibbia, ‘di presenza avvenente e di bell’aspetto’.  E Potifarre, anche se, come tutti gli ufficiali del Faraone era eunuco, a quanto pare aveva una moglie, una signora che avrà avuto, si suppone, una certa età, ma era ancora sulla breccia e, presumibilmente, si sentiva piuttosto frustrata.  E si innamorò di Giuseppe.”
Anche questo, commento, non è il massimo dell’originalità.
“Già, ma il motivo di Potifarre è questo.  La donna di una certa età, la padrona di casa, si innamora del bel giovane di cui il marito si fida.  E, naturalmente, gli fa delle proposte.”
“E lui le accetta?”
“Accettare, lui?  Il casto Giuseppe per definizione?  Figurati.  Le spiega che non potrebbe mai fare una cosa del genere al suo padrone, e che farebbe meglio a mettersi il cuore in pace.  Lei non si rassegna e una volta che se lo trova in casa solo senza testimoni gli salta addosso.  Ma lui scappa, lasciandole in mano la tunica.”
Ridacchio.  Guarda un po’ cosa c’è nella Bibbia.  “Be’, tutto è bene quello che finisce bene.”
“Sì, nella Genesi, in effetti, tutto finisce bene, anche se lei per vendicarsi lo calunnia, dicendo al marito che l’ha insidiata, e lo fa mettere  in prigione, poveraccio.  Ma poi lui se la cava lo stesso, perché interpreta i sogni degli ufficiali del Faraone e diventa viceré dell’Egitto.  Però non è detto che vada sempre così.”
A essere proprio sinceri, mi sembra una storia stupidissima, anche se fa piacere scoprire che certe cose succedevano anche a quei tempi.
Lei comunque, ha ancora qualcosa da dire.
“Vedi,” comincia in tono paziente, “la Bibbia non è un testo tragico.  Contiene un messaggio religioso, per cui deve risolvere le contraddizioni in qualche modo, se no che messaggio religioso è?  E poi Giuseppe era una specie di eroe nazionale, non lo si poteva lasciare nei guai per una storia di sesso.   Ma, di solito, il motivo di Putifarre finisce malissimo.”
Non riesco a capire perché, ma in tutto questo discorso c’è qualcosa che non mi piace.  È evidente che questa storia di giovani amministratori di bell’aspetto e anziane signore assatanate la ha colpita profondamente.
La guardo senza sapere bene cosa dire, mentre i violini della musica diffusa suonano un stupido motivetto dei Beatles (i Beatles per violino, figuriamoci) e la gente attorno a noi ride e scherza tutta contenta e i camerieri stanno servendo i dessert, sono cominciati i brindisi, le coppiette si sorridono e le tavolate fanno sempre più casino.  Come siamo finiti a parlare di queste cose?
“Ah sì?” riesco appena a borbottare, versandomi un bicchiere di vino.  Sento di averne bisogno.
“Sì.”  Adesso ha davvero una voce strana.   “Ippolito e Fedra…”
Ippolito e Fedra, giuro, non li ho mai sentiti nominare.
 “Sono due figure mitologiche” spiega lei.  “Euripide ha scritto due tragedie sulla loro storia, ma ce n’è restata solo una.  Il tema, poi, l’hanno ripreso in tanti: Seneca, Racine…  C’è persino un film di Dassin con Melina Mercouri.”
Questo, vagamente, me lo ricordo.  C’era Anthony Perkins che usciva di strada con una Aston-Martin.  Ma il resto della trama mi sfugge.
“E qual è questa storia?  Ha sempre a che vedere con il motivo di Potifar?”
“Sì, ma…  in una versione più completa.  Vedi, lei era moglie di Teseo, re di Atene.  E lui era suo figlio.”
“Suo figlio di lei?”
“No, di lui.  Da un’altra donna.  Comunque vivevano insieme, a Trezene, nel Peloponneso.”
Ahia.
“E lei si innamorò di lui, naturalmente.”
Credo di sapere già come va a finire.  “E allora” la interrompo “gli fece delle proposte...”
“Nella prima tragedia sì.  E lui la rifiuta, come Giuseppe.  Nella seconda, che Euripide ha scritto perché al pubblico la prima non era piaciuta, gli era sembrata un po’ troppo forte, con una scena in cui una donna fa delle avances a un uomo, che oltretutto è più giovane di lei e come se non bastasse è figlio di suo marito, nella seconda, ti dicevo, a raccontargli dei sentimenti di Fedra ci pensa un’altra e lui le manda a quel paese tutte e due.  In entrambi i casi, comunque, lei di fronte al rifiuto si uccide.”
Ha una voce tesissima.  Non me ne ero reso conto, finora, ma è sul classico orlo della crisi di nervi.  E purtroppo, a questo punto, so anche perché.
“Ma prima di impiccarsi scrive una lettera di addio al marito, dicendogli che si uccide perché Ippolito la ha violentata.”
“E…”
“E Teseo maledice il figlio, che in seguito a quella maledizione muore.  In pratica lo uccide.  Innocente.”
Un momento, un momento.  La storia si sta complicando.
“Ma perché lei lo calunnia?  E lui non può spiegare come sono andate le cose?”
“Lei si vuole vendicare, ovviamente.  E lui non potrà mai giustificarsi, perché il padre, anche se gli credesse, avrebbe comunque dei seri motivi di rancore contro di lui.  Volente o nolente, Ippolito gli ha portato via Fedra.  La giovinezza del figlio ha prevalso sulla maturità del padre.  Lui è colpevole comunque, anche se intenzionalmente non ha fatto nulla di male, anzi, ha cercato di uscire con dignità da una situazione sgradevole.  Il fatto è che quando si incrociano questi due piani, la catastrofe è inevitabile.”
“Quali due piani?”
“La giovinezza e la maturità.  La famiglia e la passione.  I padri e i figli.  Non si può.  Non si può mai.  Lo sappiamo tutti e due…”
È ora di smetterla, con queste sciocchezze.  “Non capisco cosa stai dicendo.”
“Lo capisci benissimo.  Quella storia…  è inutile girarci intorno, quella storia è anche la nostra.”
Lo sapevo, che ci saremmo arrivati, ma non è giusto.  C’era un patto, tra noi.  “La nostra storia è tutta diversa.”
“È la stessa.  Al contrario, se vuoi, ma è la stessa.  Sono stata io a innamorarmi di te e tu non mi hai rifiutato, ma la storia è la stessa.  Tu eri il marito di mia madre, comunque.  La simmetria c’è.  È perfetta.”
“Tua madre non si è suicidata e non ha calunniato nessuno.  È morta in un incidente.”
Improvvisamente, sembra calmissima.  “Sai perché ho insistito tanto per farti venire a questa stupida cena?” mi chiede.  “Perché volevo fare qualcosa di normale. Una cosa banale, magari, un po’ sciocca, come uscire insieme per San Valentino, ma una cosa che facessero tutti, o quasi.  Non sopportavo più la nostra eccezionalità.  Una figliastra che sta con il patrigno…  Te l’ho già chiesto: cosa penserebbero di noi le persone normali?  Quelli seduti agli altri tavoli in questa stessa sala?”
“Non lo sanno.  Non lo sa nessuno, in questa città.  Ci siamo trasferiti per questo.”
“Ma lo sappiamo noi.  Come sappiamo che mia madre non è morta in un incidente.”
“Cosa…  cosa vuoi dire?”
Ma so benissimo, cosa vuol dire.  E so benissimo cosa vuol dire il fatto che ne parli.  Sapevamo tutti e due che saremmo stati insieme soltanto a patto di non parlarne mai e adesso ne ha parlato.
“Sì” continua lei.  “Lo so che nessuno avrebbe potuto scoprirlo, ormai.  Il corpo cremato, la macchina demolita…  Ma non era questo il problema.  Il problema è che oggi ho capito che non potevamo più fare nulla di normale.  E che…”  Si guarda intorno, come per cercare le parole.  “E che io dovevo completare la simmetria.”  Abbassa la voce a una specie di bisbiglio.  “Ho capito che c’era solo una cosa da fare.  Dovevo uccidermi e denunciarti.”
Devo rispondere qualcosa, per far cessare questa follia, ma non riesco a pensare a niente.  Guardo due giovanotti dall’aria severa che sono entrati in sala e stanno parlottando con il capocameriere, che, a sua volta, consulta la lista delle prenotazioni..  
“Be’” sorride lei con amarezza.  “Come vedi, non mi sono uccisa.  Non sono all’altezza di un’eroina tragica, probabilmente.  Ma, pagherò lo stesso.  E, sì, mi dispiace, ma ti ho denunciato.  Ho scritto una lettera in cui ho confessato tutto e non ho potuto fare a meno di denunciare anche te.  Ho raccontato tutto, dall’inizio.  Mi dispiace, ma non potevo far altro.  Il tempo di fare due controlli, di scoprire dove siamo e verranno a prenderci.”
Il capocameriere ha indicato il nostro tavolo e i due si stanno muovendo verso di noi.  Ma non li guardo più.  Guardo lei, seduta davanti a me, con quel sorriso amaro  e quell’espressione disperata negli occhi e, davvero, non so cosa dire.

Simmetrie, in Innamorati da morire, Todaro, Lugano, 2002