Simmetrie
Alza il bicchiere, beve un sorso, mi
guarda e sorride.
“È
così terribile?” chiede.
Le
ricambio il sorriso e mi guardo intorno. Sala semibuia, lume di candela,
gente elegante. Molte coppie, naturalmente, di età variabile, anche
se, tendenzialmente, sul giovane. Però ci sono anche due o tre tavolate
e in un una, giuro, sono addirittura dispari. Li ho contati prima,
mentre aspettavo.
“Ma
no” rispondo. “Niente di tremendo, figurati. Solo… mi sembrava
un’idea un po’ strana. Festeggiare san Valentino così, in
pubblico, sai… ai miei tempi non si usava.”
Non
avrei dovuto lasciarmi sfuggire quel “ai miei tempi”. È un’espressione
che, di solito, la irrita terribilmente. Anche se, a pensarci bene,
quello che dovrebbe reagire male a ogni possibile accenno alla nostra differenza
di età dovrei essere io. Invece no: è lei che non vuole che se ne
parli. Ma questa volta sembra non raccogliere.
“Sei
ancora fortunato” dice. “Ti sei risparmiato la discoteca.”
Sì,
lo so che oggi, oltre alle cene di san Valentino in ristorante, fanno le
feste di san Valentino in discoteca. Ma quello che troppo è troppo
e deve essersene reso conto anche lei. Rabbrividisco ostentatamente
e bevo un altro sorso di vino. Non è niente di speciale: il solito
chardonnais.
“E
cosa facevate per san Valentino, ai tuoi tempi” mi chiede lei all’improvviso,
in tono leggermente canzonatorio. Evidentemente la frase di prima
non le era sfuggita affatto.
“Be’”
rispondo, un po’ esitante, “niente di speciale. Non è che la considerassimo
una festa vera e propria, una ricorrenza seria come le altre. Il
più delle volte non ce ne accorgevamo nemmeno. Al massimo… al
massimo poteva essere l’occasione per farsi un paio di coccole in più,
o per scambiarsi dei piccoli regali innocui…”
“Una
scatola di cioccolatini di quelli con li biglietti con le citazioni?”
Sorrido.
“No, quello sarebbe stato davvero troppo. Né i cioccolatini
con le citazioni né i libri con i fidanzatini di Peynet.” Colgo
un lampo di perplessità nel suo sguardo e capisco che i fidanzatini di
Peynet, per lei, non significano assolutamente niente. “I soliti
regali” proseguo, frugando nella memoria. “Un foulard… una cravatta…
una coppia di animaletti di peluche… al massimo una spilla di pietre dure
o un portaritratti di argento mignon, delle cose così. In fondo,
allora ci accontentavamo di poco.”
Mi
rendo conto che avrei fatto meglio a non citare affatto i portaritratti
di argento mignon. Ce n’è uno in casa, sulla mensola con gli oggettini
in salotto e non vorrei che le saltasse in mente di chiedermi chi me l’ha
regalato. “E poi” proseguo in fretta ”poi, naturalmente, andavamo
a cena fuori.”
“Vedi”
commenta lei, sbrigativa. “E a cena fuori sei finito anche oggi.
Niente di nuovo sotto il sole.”
Sono
discorsi, in realtà, che mi mettono a disagio. Differenza di età
o non differenza di età, di solito del passato preferiamo non parlare.
Per fortuna è arrivato a interromperci
il cameriere con il primo. Risotto allo champagne con tartufi, è
scritto sul menù a forma di cuore che abbiamo trovato sul tavolo, anche
se sullo champagne non sarei disposto a giurare e se i tartufi, a febbraio,
saranno, come minimo, conservati. Ma ho già capito fin dall’antipasto
(due gamberetti, un crostino con una fettina di paté e una cucchiaiata
di finto caviale) che siamo finiti in uno di quei posti dove si fa
molta scena, ma la cucina è l’ultima cosa che conta. Anche
l’aperitivo, un flûte di spumante con dentro qualcosa di troppo rosa e
troppo dolce (una specie di kir, in effetti, ma naturalmente lo hanno battezzato
La vie en rose) non faceva prevedere niente di buono.
Mangiamo
in silenzio, per qualche minuto. Attorno, nonostante le candele,
i fiori sui tavoli, i violini in sottofondo e i cuoricini sparsi dappertutto,
l’atmosfera non è precisamente romantica. Quelli delle tavolate
sono tutti allegrissimi e chiacchierano e ridono come se fossero a una
cena tra colleghi. Tra le coppie, invece, ce ne sono due o tre con
l’aria decisamente annoiata e ogni tanto un lui o una lei rompe il silenzio
tirando fuori il telefonino. La ragazza al tavolo accanto al nostro,
per esempio, è impegnata da almeno mezz’ora in una conversazione che sembra
interessarla moltissimo, mentre il suo accompagnatore la fissa, paziente,
con uno sguardo sempre più depresso.
Scherziamo
tra noi, chiedendoci a chi stia telefonando la nostra vicina. Magari
sta parlando con fidanzato in carica: lui è fuori per lavoro, in Australia
o da qualche parte del genere, e si sono dati un appuntamento telefonico
all’ora di cena. Il tipo con lei dev’essere il solito vecchio amico
gentile che l’ha portata fuori perché non si sentisse troppo sola.
Oppure, ipotizzo io, lei sta facendo una specie di doppio gioco, nel senso
che di fidanzati ne ha due e anche se è uscita con uno non rinuncia a tenersi
in contatto con l’altro. Con i tempi che corrono, succede anche
di peggio.
“Dai”
mi rimprovera. “Non devi dire queste cose. Pensa cosa potrebbero
pensare gli altri di noi.”
Non
vedo cosa potrebbero pensare di particolare. In fondo, siamo una
coppia come tante altre. La differenza di età è un fattore soprattutto
mentale. Io non sono poi così vecchio e lei, ormai, non è più una
bambina. Di gente come noi, tutto sommato, se ne vede in giro parecchia.
Comunque,
non è il caso di mettersi a polemizzare. Faccio finta di niente e
le chiedo come abbia passato la giornata. Sono venuto al ristorante
direttamente dall’ufficio e non la vedo da stamattina.
“Niente
di speciale” mi dice. “Un paio di lezioni al mattino e il solito
seminario del venerdì pomeriggio. Poi ho dovuto tornare a casa a
cambiarmi.”
Già.
Adesso che me ne rendo conto, questa sera si è messa più elegante
del solito. Normalmente, quando usciamo insieme, non va più in là
della solita giacca di pelle. Adesso ha fatto uno sforzo speciale:
un abito di velluto nero che non le avevo mai visto addosso e che le sta
particolarmente bene. Si è anche truccata un filo e si è messa qualche
goccia di profumo.
È
bellissima.
“Un
seminario?” le chiedo, senza fare commenti sul suo aspetto. “E
su che cos’era?”
Da
quando ha ricominciato a frequentare l’Università, devo dire, mi sento
piuttosto sollevato. Vuol dire che la situazione si sta normalizzando.
Ma è una cosa di cui mi parla malvolentieri, come se pensasse che
di quello che fa io non mi debba preoccupare. In effetti, non sono
suo padre.
“Antropologia
culturale” si limita a rispondere. Poi resta zitta per qualche minuto.
È di cattivo umore, anche se cerca di
non farlo capire. L’ambiente, certo, non è entusiasmante: avevo ragione
io a non volere venire per tutto l’oro del mondo. È stata lei a insistere
perché uscissimo insieme stasera, anzi, perché andassimo proprio alla cena
di san Valentino. Per una volta, ha continuato a ripetere, avremmo
potuto mettere il naso fuori, invece di starcene chiusi in casa come al
solito. E so fin troppo bene, per esperienza, che quando lei si mette
in mente qualcosa, è inutile cercare di opporsi.
A pensarci bene, quasi quasi, sarebbe
stato meglio la discoteca.
“Ai…
quando andavo io all’Università,” commento, “antropologia culturale
non c’era. Era una cosa che insegnavano a Parigi, alla Sorbona.
O a Berkeley, se ricordo bene. Io ero in un’altra facoltà,
naturalmente, ma avevo un amico che mi faceva una testa così…”
Devo stare più attento. Stavo
per dire di nuovo “ai miei tempi” e mi sono bloccato in extremis.
“Da
noi è un corso fondamentale” spiega lei, in tono neutro. “E i seminari
sono interessanti.”
“Questo
che segui adesso di che cosa tratta?”
Mi
guarda con un filo d’impazienza, come se le mie domande le dessero fastidio.
“Del folclore nella tragedia greca.”
“Il…
folclore nella tragedia greca?”
A occhio e croce, non mi sembra un argomento
particolarmente entusiasmante.
“Sì, il folclore. O piuttosto,
gli elementi di folclore nella tragedia greca.”
Non capisco bene la distinzione.
“Vuol dire che alcune delle storie
raccontate dai tragici sono la rielaborazione di certi motivi, che conosciamo
anche dalla tradizione folcloristica. Dalle fiabe, in sostanza.
La storia di Edipo, da questo punto di vista, è identica a quella
di Pollicino.”
“Pollicino? Ma Edipo non era
quello del complesso?” Non è un commento particolarmente brillante,
ma lei non ci bada.
“Sì, in Sofocle sì. Ma il mito
di Edipo, la sua storia personale, era una cosa piuttosto diversa. Era
stato abbandonato da piccolo sui monti, poi qualcuno lo aveva salvato e
così era cresciuto, aveva ucciso la Sfinge ed era diventato re.
Anche Pollicino è stato abbandonato nel bosco, ha ucciso l’Orco cattivo
ed è diventato, in un certo senso, il capofamiglia.”
Che strane cose si studiano oggi nelle
Università.
“È una storia di morte e rinascita”
continua lei, infervorandosi. “Gli antropologi lo chiamano un mito
di iniziazione. L’eroe deve morire – il fatto di essere abbandonato,
in questi contesti, vuol dire più o meno questo – per rinascere e realizzare
se stesso. Secondo alcuni è la metafora di una fase della vita dell’uomo,
il passaggio dallo stato infantile a quello adulto. In fondo è logico:
se ci pensi, il bambino deve morire in quanto tale per rinascere come adulto.
Infatti i riti di passaggio, quelli che in certe società segnano
l’ingresso dell’individuo nella società adulta, prevedono spesso una
qualche forma di morte simbolica. Un abbandono, appunto, o una forma
simulata di seppellimento. È una vecchia ipotesi dell’antropologia
culturale, anzi, quasi un postulato, che tra riti e miti ci sia una connessione
piuttosto stretta.”
Il tono è un po’ dottorale, ma è sempre
un piacere sentirla quando si appassiona a qualcosa. E sono anche
contento che abbia smesso di parlare di Edipo. È un argomento, quello,
che per un motivo o per l’altro mi rende nervoso.
“Anche Pinocchio muore come burattino
per rinascere come essere umano” mi azzardo a commentare.
Si illumina tutta. Mi sono meritato
un bel voto. “Sì, anche Pinocchio” conferma. “E Superman,
che viene abbandonato da bambino nella capsula spaziale. E anche
Terry McCaleb, in un certo senso. Di storie di morte e rinascita
se ne scrivono sempre, anche senza saperlo.”
Non ho la minima idea di chi sia questo
Terry McCaleb, ma non importa. Sarà il protagonista di qualche mito
scozzese. Intanto il cameriere ha tolto i piatti del primo e ci ha
portato il secondo. Cotolettine di agnello, per me: hanno un’aria
meno minacciosa di quanto temessi. Lei, invece, ha scelto la sogliola.
“È di questo che vi siete occupati
oggi? Di morte e rinascita?” chiedo, cominciando a mangiare.
Lei spezza un grissino. “No”
dice. “Oggi abbiamo parlato d’altro.”
Niente da fare. Neanche l’agnello,
tutto sommato, è un gran che. La povera bestia deve essere arrivata
a piedi dalla Nuova Zelanda.
“E invece?” chiedo.
“Niente di speciale. Com’è la
tua carne?”
Si direbbe che abbia voglia di cambiare
argomento. Strano, fino a un minuto fa era così entusiasta del suo
seminario.
“Non è male.” Non è vero, ma
è inutile stare a lamentarsi.
Lei mangia un pezzetto di sogliola e
raccoglie un poco di salsa con il mezzo grissino.
“Non è detto che ci sia sempre una
rinascita” dice in tono strano, come se parlasse a se stessa.
Lo so anch’io che si rinasce soltanto
nelle favole. Ma cosa le è venuto in mente, adesso?
“Vedi” comincia lei, sempre con quel
tono strano nella voce, “quando Giuseppe fu venduto dai suoi fratelli
in Egitto, finì come amministratore nella casa di un certo Potifar, o Putifarre,
capitano delle guardie del Faraone.”
“Giuseppe?” chiedo io. “Giuseppe
chi?”
“Giuseppe. Il figlio prediletto
di Giacobbe. Quello della Bibbia. Non hai mai letto la Bibbia?”
No, le confesso che, a dire il vero,
non ho mai letto la Bibbia, anche se questa storia di Giuseppe venduto
dai suoi fratelli ho la vaga impressione di ricordarmela. L’avrò
vista in un film, o in televisione.
“Giuseppe, evidentemente, come amministratore
era molto bravo” prosegue lei. “La Genesi dice che ‘l’Eterno
per amor suo benedisse la casa dell’Egiziano’ che, quindi, finì per lasciargli
in mano tutti i suoi affari.”
“È di questo che avete parlato oggi?”
Fa un cenno di assenso.
“Ma non mi hai detto che vi occupavate
di tragedie greche e di favole? Cosa c’entra la Bibbia?”
“Anche nella Bibbia ci sono parecchi
motivi che vengono dal folclore. E la Grecia e la Palestina non sono
poi così lontane. Alcuni di quei motivi si ritrovano nelle tragedie
greche. Come quello di Putifarre.”
“Di Putifarre o di Giuseppe?”
“Di tutte e due, in effetti. Ma
gli antropologi lo chiamano il ‘motivo di Putifarre’: das Potiphar Motiv,
in tedesco.”
“Che cosa? Che uno si ritrova
in casa un amministratore bravissimo che fa andare tutto a gonfie vele
e gli lascia in mano i suoi affari? Ti assicuro che piacerebbe anche
a me.”
“Questo è solo l’inizio” mi spiega
lei con un mezzo sorriso. “Il fatto è che Giuseppe non era soltanto
molto bravo negli affari. Era anche, come dice la Bibbia, ‘di presenza
avvenente e di bell’aspetto’. E Potifarre, anche se, come tutti
gli ufficiali del Faraone era eunuco, a quanto pare aveva una moglie, una
signora che avrà avuto, si suppone, una certa età, ma era ancora sulla
breccia e, presumibilmente, si sentiva piuttosto frustrata. E si
innamorò di Giuseppe.”
Anche questo, commento, non è il massimo
dell’originalità.
“Già, ma il motivo di Potifarre è questo.
La donna di una certa età, la padrona di casa, si innamora del bel
giovane di cui il marito si fida. E, naturalmente, gli fa delle proposte.”
“E lui le accetta?”
“Accettare, lui? Il casto Giuseppe
per definizione? Figurati. Le spiega che non potrebbe mai fare
una cosa del genere al suo padrone, e che farebbe meglio a mettersi il
cuore in pace. Lei non si rassegna e una volta che se lo trova in
casa solo senza testimoni gli salta addosso. Ma lui scappa, lasciandole
in mano la tunica.”
Ridacchio. Guarda un po’ cosa
c’è nella Bibbia. “Be’, tutto è bene quello che finisce bene.”
“Sì, nella Genesi, in effetti, tutto
finisce bene, anche se lei per vendicarsi lo calunnia, dicendo al marito
che l’ha insidiata, e lo fa mettere in prigione, poveraccio. Ma
poi lui se la cava lo stesso, perché interpreta i sogni degli ufficiali
del Faraone e diventa viceré dell’Egitto. Però non è detto che vada
sempre così.”
A essere proprio sinceri, mi sembra
una storia stupidissima, anche se fa piacere scoprire che certe cose succedevano
anche a quei tempi.
Lei comunque, ha ancora qualcosa da
dire.
“Vedi,” comincia in tono paziente,
“la Bibbia non è un testo tragico. Contiene un messaggio religioso,
per cui deve risolvere le contraddizioni in qualche modo, se no che messaggio
religioso è? E poi Giuseppe era una specie di eroe nazionale, non
lo si poteva lasciare nei guai per una storia di sesso. Ma, di solito,
il motivo di Putifarre finisce malissimo.”
Non riesco a capire perché, ma in tutto
questo discorso c’è qualcosa che non mi piace. È evidente che questa
storia di giovani amministratori di bell’aspetto e anziane signore assatanate
la ha colpita profondamente.
La guardo senza sapere bene cosa dire,
mentre i violini della musica diffusa suonano un stupido motivetto dei
Beatles (i Beatles per violino, figuriamoci) e la gente attorno a noi ride
e scherza tutta contenta e i camerieri stanno servendo i dessert, sono
cominciati i brindisi, le coppiette si sorridono e le tavolate fanno sempre
più casino. Come siamo finiti a parlare di queste cose?
“Ah sì?” riesco appena a borbottare,
versandomi un bicchiere di vino. Sento di averne bisogno.
“Sì.” Adesso ha davvero una
voce strana. “Ippolito e Fedra…”
Ippolito e Fedra, giuro, non li ho mai
sentiti nominare.
“Sono due figure mitologiche”
spiega lei. “Euripide ha scritto due tragedie sulla loro storia,
ma ce n’è restata solo una. Il tema, poi, l’hanno ripreso in tanti:
Seneca, Racine… C’è persino un film di Dassin con Melina Mercouri.”
Questo, vagamente, me lo ricordo. C’era
Anthony Perkins che usciva di strada con una Aston-Martin. Ma il
resto della trama mi sfugge.
“E qual è questa storia? Ha sempre
a che vedere con il motivo di Potifar?”
“Sì, ma… in una versione più
completa. Vedi, lei era moglie di Teseo, re di Atene. E lui
era suo figlio.”
“Suo figlio di lei?”
“No, di lui. Da un’altra donna.
Comunque vivevano insieme, a Trezene, nel Peloponneso.”
Ahia.
“E lei si innamorò di lui, naturalmente.”
Credo di sapere già come va a finire.
“E allora” la interrompo “gli fece delle proposte...”
“Nella prima tragedia sì. E lui
la rifiuta, come Giuseppe. Nella seconda, che Euripide ha scritto
perché al pubblico la prima non era piaciuta, gli era sembrata un po’
troppo forte, con una scena in cui una donna fa delle avances a un uomo,
che oltretutto è più giovane di lei e come se non bastasse è figlio di
suo marito, nella seconda, ti dicevo, a raccontargli dei sentimenti di
Fedra ci pensa un’altra e lui le manda a quel paese tutte e due. In
entrambi i casi, comunque, lei di fronte al rifiuto si uccide.”
Ha una voce tesissima. Non me
ne ero reso conto, finora, ma è sul classico orlo della crisi di nervi.
E purtroppo, a questo punto, so anche perché.
“Ma prima di impiccarsi scrive una
lettera di addio al marito, dicendogli che si uccide perché Ippolito la
ha violentata.”
“E…”
“E Teseo maledice il figlio, che in
seguito a quella maledizione muore. In pratica lo uccide. Innocente.”
Un momento, un momento. La storia
si sta complicando.
“Ma perché lei lo calunnia? E
lui non può spiegare come sono andate le cose?”
“Lei si vuole vendicare, ovviamente.
E lui non potrà mai giustificarsi, perché il padre, anche se gli
credesse, avrebbe comunque dei seri motivi di rancore contro di lui. Volente
o nolente, Ippolito gli ha portato via Fedra. La giovinezza del figlio
ha prevalso sulla maturità del padre. Lui è colpevole comunque, anche
se intenzionalmente non ha fatto nulla di male, anzi, ha cercato di uscire
con dignità da una situazione sgradevole. Il fatto è che quando si
incrociano questi due piani, la catastrofe è inevitabile.”
“Quali due piani?”
“La giovinezza e la maturità. La
famiglia e la passione. I padri e i figli. Non si può. Non
si può mai. Lo sappiamo tutti e due…”
È ora di smetterla, con queste sciocchezze.
“Non capisco cosa stai dicendo.”
“Lo capisci benissimo. Quella
storia… è inutile girarci intorno, quella storia è anche la nostra.”
Lo sapevo, che ci saremmo arrivati,
ma non è giusto. C’era un patto, tra noi. “La nostra storia
è tutta diversa.”
“È la stessa. Al contrario, se
vuoi, ma è la stessa. Sono stata io a innamorarmi di te e tu non
mi hai rifiutato, ma la storia è la stessa. Tu eri il marito di mia
madre, comunque. La simmetria c’è. È perfetta.”
“Tua madre non si è suicidata e non
ha calunniato nessuno. È morta in un incidente.”
Improvvisamente, sembra calmissima.
“Sai perché ho insistito tanto per farti venire a questa stupida
cena?” mi chiede. “Perché volevo fare qualcosa di normale. Una
cosa banale, magari, un po’ sciocca, come uscire insieme per San Valentino,
ma una cosa che facessero tutti, o quasi. Non sopportavo più la nostra
eccezionalità. Una figliastra che sta con il patrigno… Te
l’ho già chiesto: cosa penserebbero di noi le persone normali? Quelli
seduti agli altri tavoli in questa stessa sala?”
“Non lo sanno. Non lo sa nessuno,
in questa città. Ci siamo trasferiti per questo.”
“Ma lo sappiamo noi. Come sappiamo
che mia madre non è morta in un incidente.”
“Cosa… cosa vuoi dire?”
Ma so benissimo, cosa vuol dire. E
so benissimo cosa vuol dire il fatto che ne parli. Sapevamo tutti
e due che saremmo stati insieme soltanto a patto di non parlarne mai e
adesso ne ha parlato.
“Sì” continua lei. “Lo so che
nessuno avrebbe potuto scoprirlo, ormai. Il corpo cremato, la macchina
demolita… Ma non era questo il problema. Il problema è che
oggi ho capito che non potevamo più fare nulla di normale. E che…”
Si guarda intorno, come per cercare le parole. “E che io dovevo
completare la simmetria.” Abbassa la voce a una specie di bisbiglio.
“Ho capito che c’era solo una cosa da fare. Dovevo uccidermi
e denunciarti.”
Devo rispondere qualcosa, per far cessare
questa follia, ma non riesco a pensare a niente. Guardo due giovanotti
dall’aria severa che sono entrati in sala e stanno parlottando con il
capocameriere, che, a sua volta, consulta la lista delle prenotazioni..
“Be’” sorride lei con amarezza. “Come
vedi, non mi sono uccisa. Non sono all’altezza di un’eroina tragica,
probabilmente. Ma, pagherò lo stesso. E, sì, mi dispiace, ma
ti ho denunciato. Ho scritto una lettera in cui ho confessato tutto
e non ho potuto fare a meno di denunciare anche te. Ho raccontato
tutto, dall’inizio. Mi dispiace, ma non potevo far altro. Il
tempo di fare due controlli, di scoprire dove siamo e verranno a prenderci.”
Il capocameriere ha indicato il nostro
tavolo e i due si stanno muovendo verso di noi. Ma non li guardo
più. Guardo lei, seduta davanti a me, con quel sorriso amaro e
quell’espressione disperata negli occhi e, davvero, non so cosa dire.
Simmetrie, in Innamorati da morire, Todaro, Lugano, 2002