Anche se il futuro, come si diceva una
volta, sta sulle ginocchia degli dei, non è necessario essere dei grandissimi
profeti, o dei politologi particolarmente esperti, per prevedere che la
ribellione del presidente Formigoni, quale era stata annunciata all’inizio
della settimana testé trascorsa, non è destinata a durare. L’individuo
ha molte doti – anche se non forse tutte quelle che i media, Radio Popolare
compresa, gli riconoscono in questi giorni – ma non è certo uno di quelli
che si spezzano ma non si piegano, almeno quando si tratta di adattarsi
alle tattiche della politica e alle sue, pur meschine, necessità.
Duttile come tutti i democristiani di un certo livello, capace di
coniugare la più alta visione di sé con una certa spregiudicata disinvoltura
nel mettersi al servizio degli altri (due doti – del resto – meno contraddittorie
tra loro di quanto possa apparire in chi per gli “altri”, nel senso delle
idee, nutre soprattutto disprezzo) è passato senza traumi da Andreotti
a Berlusconi, trattenendosi solo per lo spazio di un mattino nel Partito
Popolare, e se non dovrebbe avere grossissimi problemi a cambiare ulteriormente
collocazione, lo farebbe solo a patto di non doversi allontanare di un
filo dalle stanze dove si gestisce il potere, che del tipo umano che incarna
rappresentano l’unico e autentico terreno di cultura e di crescita. Per
cui, con il vento che tira in Lombardia, per quanto fastidio possa dargli
Bossi, per quanta genuina soddisfazione trarrebbe dall’idea di fare le
scarpe al Berlusca, per quanto possa averlo irritato il blocco della lista
con il suo nome sopra, non si vede come potrebbe schiodarsi dalla Casa
della Libertà. Di fatto, dopo il niet del vertice del centro destra,
prima ha detto che avrebbe chiesto una deroga (che non è, ammetterete,
la più bellicosa delle dichiarazioni), poi ha spiegato che deve rendersi
conto esattamente di come stiano le cose e adesso, suppongo, starà già
trattando il numero di consiglieri sicuri da inserire nel “listino”,
qualsiasi cosa sia, e le altre contropartite previste o supposte. Lui
è fatto così e lo sapevamo anche prima di eleggerlo.
Bisogna
ammettere, tuttavia, che questa prassi politica non si può spiegare soltanto
in termini ideologici o caratteriali. Di fatto, nel nostro allegro
paese è più diffusa di quanto possa fare piacere ammettere. La politica
italiana, oggi, è una via di Damasco estremamente trafficata. Di
dietrofront più o meno precipitosi, di solenni dichiarazioni di autonomia
destinate a concludersi con festosi rientri sono piene le cronache. E
se Formigoni, tutto sommato, si è mosso con un certo garbo, perché lui
la lista personale aveva detto di volerla fare nell’interesse di tutta
la sua coalizione, gli altri, di solito, sono di modi assai meno felpati.
Il grido di “se non mi date subito questo o quest’altro me ne vado
e tanto peggio per voi” nei dibattiti politici tende a riecheggiare con
una certa frequenza. A Milano il sindaco Albertini, nelle trattative
con i partiti della sua riluttante maggioranza, non si serve, in pratica,
di altri argomenti. Bossi, lo ha dimostrato anche recentemente, ne
ha fatto lo strumento principe delle proprie fortune. I vari De Michelis
e Bobo Craxi hanno spesso cercato di giocare in quel senso le poche carte
di cui dispongono. E per quanto riguarda la sinistra, se è fin troppo
facile fare dell’umorismo su uno specialista del calibro di Mastella,
(lo ho fatto anch’io domenica scorsa), non bisogna dimenticare che Bertinotti
ha brandito quel tipo di minaccia per tutti gli anni della desistenza,
che verdi, comunisti italiani e altri cespugli non sono affatto alieni
a ricorrervi e che di una sua variante appena un po’ meno esplicita si
è fatto forte lo stesso Prodi nei suoi battibecchi con Rutelli e soci.
Poi,
tutti finiscono per ritornare buoni buoni all’ovile, e sfido io. La
legge elettorale vigente premia le aggregazioni e chi minaccia di correre
da solo può, sì, condannare a sicura sconfitta i propri ex compagni, ma
con ottime prospettive di perire egli stesso nel disastro. Per cui
l’argomento, in realtà, funziona soprattutto per quelli che possono prospettare
l’eventualità di passare, nel caso, con l’altra parte, il che un Mastella
e persino un Formigoni possono fare, ma un Prodi o un Bertinotti evidentemente
no. Il che non toglie che lo si continui a impiegare con zelo
e frequenza, contribuendo non poco a dare della politica nazionale quell’immagine
di mercato permanente che tanto contribuisce ad allontanarne gli animi
sensibili, con sicuro vantaggio indovinate di chi.
Pazienza.
Sono gli effetti, in gran parte inevitabili, del sistema maggioritario
di coalizione, che, costringendo le parti in cause ad aggregazioni più
o meno forzose, non favorisce certo la coerenza ideale delle coalizioni.
Chi è spinto a scegliersi i propri compagni di letto sulla base,
soprattutto, di considerazioni di utilità propria, non avrà molte remore
a cambiarli se l’operazione gli sembrerà appena un poco più vantaggiosa.
È questo, probabilmente, l’argomento principale che si possa invocare
a favore di quel metodo proporzionale cui la sinistra, convinta, chissà
perché, di poter trarre vantaggio dall’andazzo corrente, è fermamente
contraria. Stando così le cose, le minacce di secessione e i relativi
rientri contrattati sono destinati soltanto ad aumentare. Forse sulla
via di Damasco sarà il caso di mettere qualche semaforo.
16.01.’05