Dunque, Albert Einstein è l’uomo del secolo, sia esso secolo finito nove
giorni fa o debba prolungarsi, nell’indifferenza generale, per altri trecentoquarantasette.
Lo ha deciso, dedicandogli l’ultima copertina di dicembre, la rivista
Time, che da sempre incorona l’uomo dell’anno e questa volta non ha potuto
proprio fare a meno di allargarsi. Il motivo di tanto onore è abbastanza
evidente: Einstein, ci hanno spiegato per l’occasione, è l’uomo che più
di tutti ha cambiato il mondo in cui ci tocca vivere. Secondo Adam
Pais, uno dei suoi biografi, “dopo di lui il mondo non è più stato lo
stesso”. A detta di Stephen Hawking, “nessun scienziato rappresenta
il progresso tecnologico” meglio di lui. E, come spiega Walter Isaacson,
direttore della rivista, “indirettamente la teoria della relatività aprì
la strada a un nuovo relativismo nella morale, nelle arti e nella politica.
Dopo le sue scoperte si è come affievolita la fede negli assoluti.”
Bah. Personalmente non ho la competenza
per giudicare in merito. Sono abbastanza sicuro che tra teoria della
relatività e relativismo morale i rapporti siano meno diretti di quanto
suppone l’illustre collega, anche perché Einstein usava quel termine in
un senso piuttosto specifico, e non mi sembra che essa abbia influito gran
che sui progressi della tecnologia, ma forse mi sbaglio. Non credo
neanche che sia esatto dire che quella teoria, che indubbiamente ha cambiato
i modelli della fisica, abbia, per questo, cambiato automaticamente il
mondo. Per cambiare il mondo, si sa, ci vuol altro e in quel cambiamento
siamo impegnati, ciascuno nel suo piccolo, noi tutti. Ma le classifiche
dipendono dai criteri in base a cui le si formulano, ed evidentemente chi
ha formulato quella di Time voleva soltanto sostenere che la cosiddetta
“scienza pura”, quella che una volta si definiva “teoretico conoscitiva”,
rappresenta un’attività altamente caratteristica del secolo testè trascorso
e che Albert Einstein ne resta l’esponente più conosciuto e caratteristico
e su questo credo che nessuno lo possa smentire.
È strano, però. Einstein potrà aver avuto
un ruolo essenziale, in quel senso, nel “cambiare il mondo”, ma è poco
ma sicuro che i suoi sforzi per cambiarlo su un piano che avesse per l’umanità
delle conseguenze un po’ più tangibili, non hanno avuto tutto quel successo.
Ha dedicato la seconda parte della sua vita, oltre che a cercare
di formulare quella teoria generale del campo unificato che sempre lo ha
eluso, a propugnare una visione disarmata dei rapporti internazionali,
a sostenere, a costo di feroci sottolineature autocritiche, un pacifismo
radicale, a proposito del quale nessuno gli diede mai la minima tra. Morì
nel 1955, onorato e isolato, inchiodato ai suoi risultati scientifici del
1916 e assolutamente convinto del fatto che il mondo che ai posteri si
preparava (il nostro mondo) non fosse proprio niente di bello. Da
un certo punto di vista, la vita di questo “uomo del secolo” è la storia
di un grande, patetico fallimento.
D’altro canto è interessante vedere chi gli
è accomunato nella classifica di Time. Accanto ad Einstein figurano,
in seconda e terza posizione, Franklin Delano Roosevelt e il Mahatma Gandhi:
l’uno perché avrebbe fatto trionfare la democrazia sul fascismo e sul
comunismo, l’altro per aver legato indissolubilmente la lotta politica
alla difesa dei diritti civili. Due figure
certamente degne di onore e che è giusto onorare, ma senza dimenticare
che Roosevelt (che con il comunismo, a dire il vero, si alleò, anche se
vestiva i panni inquietanti di Stalin) credeva in una democrazia fondata
su quel tipo di intervento dello stato nell’economia e su quelle forme
organizzate di solidarietà sociale di cui il pensiero unico dominante oggi
si fa beffe, considerandoli anticaglie ideologiche di cui quanto prima
ci libereremo tanto meglio sarà. E quanto ai diritti civili, per
cui Gandhi ha dato effettivamente la vita, alzi la mano chi ha il coraggio
di sostenere che questo secolo ne ha visto la trionfale affermazione, in
India o altrove. Lo stesso stato creato dai seguaci del Mahatma è
tutto fuorché quella realtà laica, disarmata, nonviolenta e multicomunitaria
che egli auspicava. Né la storia di Roosevelt né quella di Gandhi
sono, in senso stretto, la storia di un fallimento, ma è certo che a essere
fallite, e nel modo più radicale, sono le loro proposte. Onorare
chi ne fu portatore è una manifestazione d’ipocrisia, o, se preferite,
di cattiva coscienza.
Ma, naturalmente, è sempre più facile incensare qualcuno, anche al più
banale livello mediatico, che cercare di riflettere sul suo insegnamento.
09.01.’00