Secoli e fallimenti

La caccia | Trasmessa il: 01/09/2000




Dunque, Albert Einstein è l’uomo del secolo, sia esso secolo finito nove giorni fa o debba prolungarsi, nell’indifferenza generale, per altri trecentoquarantasette.  Lo ha deciso, dedicandogli l’ultima copertina di dicembre, la rivista Time, che da sempre incorona l’uomo dell’anno e questa volta non ha potuto proprio fare a meno di allargarsi.  Il motivo di tanto onore è abbastanza evidente: Einstein, ci hanno spiegato per l’occasione, è l’uomo che più di tutti ha cambiato il mondo in cui ci tocca vivere.  Secondo Adam Pais, uno dei suoi biografi, “dopo di lui il mondo non è più stato lo stesso”.   A detta di Stephen Hawking, “nessun scienziato rappresenta il progresso tecnologico” meglio di lui.  E, come spiega Walter Isaacson, direttore della rivista, “indirettamente la teoria della relatività aprì la strada a un nuovo relativismo nella morale, nelle arti e nella politica.  Dopo le sue scoperte si è come affievolita la fede negli assoluti.”

       Bah.  Personalmente non ho la competenza per giudicare in merito.  Sono abbastanza sicuro che tra teoria della relatività e relativismo morale i rapporti siano meno diretti di quanto suppone l’illustre collega, anche perché Einstein usava quel termine in un senso piuttosto specifico, e non mi sembra che essa abbia influito gran che sui progressi della tecnologia, ma forse mi sbaglio.  Non credo neanche che sia esatto dire che quella teoria, che indubbiamente ha cambiato i modelli della fisica, abbia, per questo, cambiato automaticamente il mondo.  Per cambiare il mondo, si sa, ci vuol altro e in quel cambiamento siamo impegnati, ciascuno nel suo piccolo, noi tutti.  Ma le classifiche dipendono dai criteri in base a cui le si formulano, ed evidentemente chi ha formulato quella di Time voleva soltanto sostenere che la cosiddetta “scienza pura”, quella che una volta si definiva “teoretico conoscitiva”, rappresenta un’attività altamente caratteristica del secolo testè trascorso e che Albert Einstein ne resta l’esponente più conosciuto e caratteristico e su questo credo che nessuno lo possa smentire.

       È strano, però.  Einstein potrà aver avuto un ruolo essenziale, in quel senso, nel “cambiare il mondo”, ma è poco ma sicuro che i suoi sforzi per cambiarlo su un piano che avesse per l’umanità delle conseguenze un po’ più tangibili, non hanno avuto tutto quel successo.  Ha dedicato la seconda parte della sua vita, oltre che a cercare di formulare quella teoria generale del campo unificato che sempre lo ha eluso, a propugnare una visione disarmata dei rapporti internazionali, a sostenere, a costo di feroci sottolineature autocritiche, un pacifismo radicale, a proposito del quale nessuno gli diede mai la minima tra.  Morì nel 1955, onorato e isolato, inchiodato ai suoi risultati scientifici del 1916 e assolutamente convinto del fatto che il mondo che ai posteri si preparava (il nostro mondo) non fosse proprio niente di bello.  Da un certo punto di vista, la vita di questo “uomo del secolo” è la storia di un grande, patetico fallimento.

       D’altro canto è interessante vedere chi gli è accomunato nella classifica di Time.  Accanto ad Einstein figurano, in seconda e terza posizione, Franklin Delano Roosevelt e il Mahatma Gandhi: l’uno perché avrebbe fatto trionfare la democrazia sul fascismo e sul comunismo, l’altro per aver legato indissolubilmente la lotta politica alla difesa dei diritti civili.          Due figure certamente degne di onore e che è giusto onorare, ma senza dimenticare che Roosevelt (che con il comunismo, a dire il vero, si alleò, anche se vestiva i panni inquietanti di Stalin) credeva in una democrazia fondata su quel tipo di intervento dello stato nell’economia e su quelle forme organizzate di solidarietà sociale di cui il pensiero unico dominante oggi si fa beffe, considerandoli anticaglie ideologiche di cui quanto prima ci libereremo tanto meglio sarà.  E quanto ai diritti civili, per cui Gandhi ha dato effettivamente la vita, alzi la mano chi ha il coraggio di sostenere che questo secolo ne ha visto la trionfale affermazione, in India o altrove.  Lo stesso stato creato dai seguaci del Mahatma è tutto fuorché quella realtà laica, disarmata, nonviolenta e multicomunitaria che egli auspicava.  Né la storia di Roosevelt né quella di Gandhi sono, in senso stretto, la storia di un fallimento, ma è certo che a essere fallite, e nel modo più radicale, sono le loro proposte.  Onorare chi ne fu portatore è una manifestazione d’ipocrisia, o, se preferite, di cattiva coscienza.

Ma, naturalmente, è sempre più facile incensare qualcuno, anche al più banale livello mediatico, che cercare di riflettere sul suo insegnamento.


09.01.’00