Dovremmo essere tutti grati, ne converrete, ai compagni del “Manifesto”,
che, mercoledì mattina, quando siamo usciti da casa un po’ rintronati
per aver atteso fino a tardi i risultati delle presidenziali americane
e abbastanza incazzati per i medesimi, ci hanno fatto trovare in edicola
un giornale che annunciava a piena pagina la vittoria di Kerry.
Non era vero, naturalmente, ma, se non altro, all’alba di quello che,
a occhio e croce, si annuncia come un quadriennio piuttosto difficilino,
ci hanno strappato un sorriso.
Sarà per questo, probabilmente, che nessuno
ha infierito su questi avventati colleghi. Il loro giornale “chiude”
presto e di infortuni del genere, si sa, ne sono sempre capitati, da quando,
nel 1948, non ricordo quale importante organo di stampa statunitense annunciò
col dovuto rilievo la vittoria di Dewey su Truman (ma allora non si sciupavano
tante energie in exit polls e sondaggi ). E poi, nella notte di
martedì, nelle prime ore dopo la chiusura dei seggi, l’univocità degli
esiti parziali pro Kerry annunciati via via era tale da convincere persino
i peggio disposti. Lo stesso Bruno Vespa, fino a una certa ora, aveva
l’espressione un po’ preoccupata, come se temesse che ci fosse qualcosa
di vero nei vaneggiamenti dell’onorevole Rutelli, un altro che non solo
aveva dato per vincente in diretta il candidato democratico, ma aveva anche
spiegato che la sua vittoria era dovuta alla sagacia con cui egli aveva
inseguito i voti del centro. Figurarsi noialtri. In realtà,
nell’infortunio del “Manifesto” siamo caduti tutti, dagli inviati e
corrispondenti di Radio Popolare fino a noi, ascoltatori e telespettatori
semplici, che nell’auto-realizzazione di un wishful thinking tanto ovvio
siamo stati da subito pronti a giurare.
Insomma, è andata così. Ma adesso che
l’orrido Bush ha incassato il più sostanzioso successo della storia elettorale
americana, e resta libero di fare la guerra (preventiva) a chi vuole, di
tagliare le tasse ai ricchi e l’assistenza ai bisognosi, di negare i diritti
delle minoranze, di spalleggiare gli Sharon del mondo, di imporre i precetti
del puritanesimo fondamentalista, di fare – insomma – tutte le orribili
cose che sicuramente farà, sarà forse il caso di mettersi a ragionare.
E di ragionare di cose serie. Di non perdere tempo, per esempio,
a discettare sull’inadeguatezza dello strumento degli exit polls, che
in fondo chi se ne frega, perché quello degli exit polls è un falso bisogno
indotto dalle necessità interne del sistema dei media e se ne potrebbe
fare a meno senza danno. Di non scoprire l’acqua calda facendo notare
che gli elettori hanno votato, sì, contro i propri interessi, ma in nome
dei valori (“forti” o “caldi” che siano), come se interessi e valori
fossero qualcosa di intrinsecamente diverso. E, soprattutto, di smettere
di ripetere a pappagallo che sì, l’esito non è forse quello che avremmo
auspicato, ma una simile partecipazione di massa alla prova elettorale,
un così straordinario incremento degli elettori in cifre assolute e punti
percentuali dimostra che gli Stati Uniti di America, vivaddio, sono e restano
una grande democrazia, per le cui decisioni bisogna avere tutta la deferenza
e il rispetto del caso.
Ecco. Io, con il vostro permesso, per
la decisione di rieleggere Bush non provo rispetto alcuno, né lo proverei
– vi assicuro – nemmeno se l’avessero presa all’unanimità. La
ritengo, più che una prova di democrazia, un esempio di crisi della democrazia:
una decisione sbagliata, nociva persino per la maggior parte di coloro
che la hanno presa, e anche se mi rendo conto che questo contrapporre un
mio punto di vista a quello della maggioranza dei diretti interessati può
suonare arrogante e antidemocratico e chissà cosa ne direbbero Giuliano
Ferrara ed Ernesto Galli della Loggia, non vedo cosa d’altro potrei dire
io. Ma visto che nella contraddizione ci troviamo, più o meno, noi
tutti di questa sponda, l’obbligo di dipanarla in qualche modo è uno di
quelli da cui non si può prescindere.
Il tema, naturalmente, è spinoso. Ma
forse non è del tutto irreale l’ipotesi che, oggi come oggi, l’identificazione
tra democrazia ed esercizio del voto non sia più univoca come era stata
concepita dalla fine del ‘700 in poi. Non nel senso che possa darsi
una democrazia senza elezioni, ovviamente, ma in quello che le elezioni,
ahimè, forse non bastano più a garantire la democrazia.
In fondo, come dicevamo prima, è tutta una
questione di valori. E di interessi, che sono la stessa cosa, perché
è interesse di ognuno affermare i propri valori ed è un valore vedere i
propri interessi realizzati. in scambi di questo tipo, del resto,
che si realizza il nostro insopprimibile bisogno di ideologia e il momento
del voto non è altro che uno dei (rari) momenti di scambio pubblico di
valori, come a dire di espressione ideologica, che, allo stato, ci sono
concessi.
Ma lo scambio dei valori, si sa, non è mai
alla pari. I valori non sono tutti uguali, ma la loro differenza
di peso – diciamo così – dipende più dalla forza di chi li propone
che dalla loro natura intrinseca. Non è che, tanto per dire, patria,
famiglia, sicurezza e niente matrimoni gay siano valori più “forti” di
pace, assistenza sanitaria per tutti e risanamento del deficit commerciale:
il fatto è che sono più forti, concretamente, i gruppi che li propongono.
Hanno più soldi, più armi, più visibilità e più capacità di
comunicazione. Il sistema elettorale classico, specialmente in quella
sua variante caratteristica in uso negli Stati Uniti d’America, nasce
nell’orizzonte ideologico di una società egualitaria, in cui eguale per
tutti non è solo il voto, ma anche la possibilità di proporlo e indirizzarlo,
nella prospettiva, abbastanza utopistica, di una comunità di liberi e uguali
in cui ciascuno deve essere in grado di sottoporre agli altri le sue proposte
e i suoi obiettivi.
Ahimè. La società di massa è andata in
tutt’altra direzione e le possibilità di manipolazione mediatica delle
coscienze sono cresciute a tal punto da togliere molta credibilità a quell’ideale.
Dal voto di una società sempre più lontana dalle ipotesi di libertà
e di uguaglianza, può nascere il frutto avvelenato della presidenza Bush.
l’esito, pur legittimo, di un sistema elettorale che ha perso
per strada i suoi stessi fondamenti. Come prova di democrazia, francamente,
non mi sembra un granché.
E, sì, gran parte di quello che abbiamo detto varrebbe anche se al “Manifesto”
l’avessero azzeccata e avesse vinto Kerry. Ma questo è tutto un
altro discorso.
07.11.’04