Ruoli

La caccia | Trasmessa il: 03/28/1999



Strane hanno detto, in questi brutti giorni, gli zelatori della partecipazione italiana all’attacco alla Jugoslavia, soprattutto quelli di parte governativa.  E li si capisce anche: costretti a difendere una posizione dai cui dovevano, in qualche modo, prendere le distanze, perché sono tutti buoni, miti e democratici, e, di loro, non farebbero male a una mosca, si sono dovuti arrampicare sui vetri.  Si sono dovuti improvvisare esperti di storia balcanica e non hanno trovato di meglio che riciclare in salsa democratica le più viete argomentazioni militariste, prima tra tutte quella per cui il ricorso alle armi non ha, Dio ne scampi, il fine di dar inizio a una guerra, ma quello, se mai, di concluderla, per cui va considerato, in sostanza, un’iniziativa di pace, che è l’argomento classico di tutti gli aggressori dai tempi dell’invenzione dell’ascia di pietra scheggiata in poi.  Oppure hanno dovuto far finta di credere che il problema fosse davvero quello di por fine a un’intollerabile oppressione etnica, come se non fosse fin troppo facile prevedere che il primo effetto dei bombardamenti sarebbe stato quello di spingere i serbi a stringersi attorno a Milosevic, con l’ovvia conseguenza di un’escalation dei massacri nel Kosovo.  Evidentemente, da chi ritiene che per insegnare a un paese i principi della democrazia e della tolleranza etnica sia utile raderne al suolo le città, non ci si può aspettare un gran che sul piano intellettuale.
        A me, vi dirò, ha fatto particolarmente impressione un intervento  che ho ascoltato alla nostra radio l’altro ieri mattina: l’intervista a un tal Colaianni, che credo sia il responsabile estero dei DS.  Parlava, costui, con una certa spaventevole ragionevolezza, anticipando, più o meno, gli stessi concetti che il capo del governo avrebbe sviluppato quel pomeriggio in parlamento.  Spiegava che i patti vanno rispettati, che non si poteva permettere al governo serbo di prendere per il bavero la comunità internazionale tutta e che i bombardamenti, appunto, erano motivati dalla volontà, eminentemente umanitaria, di por fine a una guerra feroce.  Ma poi, di fronte alle obiezioni del nostro Piero Scaramucci, che proprio non si rassegnava a vedere in quella ragionevole luce quella che, in definitiva, è la prima aggressione armata a uno stato sovrano in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, ha sfoderato un argomento che, evidentemente, considerava decisivo.  “Vede” ha detto in tono sempre più ragionevole, “noi potremmo decidere di diventare un paese neutrale.  Non lo siamo, ma potremmo sempre diventarlo.  Ma poi dovremmo assumercene anche le conseguenze: quelle di essere un paese senza un ruolo”.   Puntualmente, D’Alema ha ripetuto alla Camera, poche ore dopo, che “al di fuori della sua collocazione internazionale” (quella europea e, soprattutto, atlantica) “l’Italia non avrebbe alcun ruolo da svolgere.”
        Bah.  In realtà sappiamo tutti che se il nostro paese, in un momento qualsiasi dell’ultimo mezzo secolo, avesse deciso di diventare neutrale, avrebbe dovuto fare i conti con un certo numero di strutture organizzate, per esempio la celebre “Gladio” del celebre senatore Cossiga, pilastro e profeta dell’attuale maggioranza, che avrebbero trovato il modo di farci cambiare rapidamente idea.   Ma queste, forse, sono polemiche superate.  Il fatto è che non è facile capire quale ruolo i nostri governanti assegnino al paese.  A me sembra che ne abbiano fatto il servizievole collaboratore dei gendarmi del mondo, sempre pronto a offrire le sue basi, il suo sostegno logistico e, se del caso, la sua partecipazione diretta alle avventure che costoro, in piena autonomia, decidono di intraprendere.  Che gli abbiano assegnato, cioè, un ruolo eminentemente servile.  Loro, evidentemente, ritengono di poter esercitare, da quella posizione, una qualche influenza sulla gestione generale della crisi, di poter sfruttare il proprio ruolo di servi per influenzare in qualche modo i loro (e nostri) padroni.  Una pretesa  straordinariamente futile che, nella sua fatuità, rivela l’arroganza patetica di tutte le mosche cocchiere.
        Il guaio è che in queste ragionevoli futilità ci si esibisce mentre la guerra continua.  E non c’è niente di ragionevole (né di futile) nella guerra, nella sua capacità di sommare infamia a infamia, di ridurre la vita umana a merce di scambio, di misurare i propri successi sulla quantità delle sofferenze che si riescono a infliggere agli altri.  Da questa realtà drammatica, carica di concreto dolore, chi governa riesce quasi sempre a prescindere, assorto com’è nella contemplazione del proprio ruolo.   Chi non riesce a prescinderne sono, naturalmente, le vittime.  Per questo, sia ragionevole o no, noi saremo sempre al loro fianco.

28.03.’99