Strane hanno detto, in questi brutti
giorni, gli zelatori della partecipazione italiana all’attacco alla Jugoslavia,
soprattutto quelli di parte governativa. E li si capisce anche: costretti
a difendere una posizione dai cui dovevano, in qualche modo, prendere le
distanze, perché sono tutti buoni, miti e democratici, e, di loro, non
farebbero male a una mosca, si sono dovuti arrampicare sui vetri. Si
sono dovuti improvvisare esperti di storia balcanica e non hanno trovato
di meglio che riciclare in salsa democratica le più viete argomentazioni
militariste, prima tra tutte quella per cui il ricorso alle armi non ha,
Dio ne scampi, il fine di dar inizio a una guerra, ma quello, se mai, di
concluderla, per cui va considerato, in sostanza, un’iniziativa di pace,
che è l’argomento classico di tutti gli aggressori dai tempi dell’invenzione
dell’ascia di pietra scheggiata in poi. Oppure hanno dovuto far
finta di credere che il problema fosse davvero quello di por fine a un’intollerabile
oppressione etnica, come se non fosse fin troppo facile prevedere che il
primo effetto dei bombardamenti sarebbe stato quello di spingere i serbi
a stringersi attorno a Milosevic, con l’ovvia conseguenza di un’escalation
dei massacri nel Kosovo. Evidentemente, da chi ritiene che per insegnare
a un paese i principi della democrazia e della tolleranza etnica sia utile
raderne al suolo le città, non ci si può aspettare un gran che sul piano
intellettuale.
A
me, vi dirò, ha fatto particolarmente impressione un intervento che
ho ascoltato alla nostra radio l’altro ieri mattina: l’intervista a un
tal Colaianni, che credo sia il responsabile estero dei DS. Parlava,
costui, con una certa spaventevole ragionevolezza, anticipando, più o meno,
gli stessi concetti che il capo del governo avrebbe sviluppato quel pomeriggio
in parlamento. Spiegava che i patti vanno rispettati, che non si
poteva permettere al governo serbo di prendere per il bavero la comunità
internazionale tutta e che i bombardamenti, appunto, erano motivati dalla
volontà, eminentemente umanitaria, di por fine a una guerra feroce. Ma
poi, di fronte alle obiezioni del nostro Piero Scaramucci, che proprio
non si rassegnava a vedere in quella ragionevole luce quella che, in definitiva,
è la prima aggressione armata a uno stato sovrano in Europa dalla fine
della seconda guerra mondiale in poi, ha sfoderato un argomento che, evidentemente,
considerava decisivo. “Vede” ha detto in tono sempre più ragionevole,
“noi potremmo decidere di diventare un paese neutrale. Non lo siamo,
ma potremmo sempre diventarlo. Ma poi dovremmo assumercene anche
le conseguenze: quelle di essere un paese senza un ruolo”. Puntualmente,
D’Alema ha ripetuto alla Camera, poche ore dopo, che “al di fuori della
sua collocazione internazionale” (quella europea e, soprattutto, atlantica)
“l’Italia non avrebbe alcun ruolo da svolgere.”
Bah.
In realtà sappiamo tutti che se il nostro paese, in un momento qualsiasi
dell’ultimo mezzo secolo, avesse deciso di diventare neutrale, avrebbe
dovuto fare i conti con un certo numero di strutture organizzate, per esempio
la celebre “Gladio” del celebre senatore Cossiga, pilastro e profeta
dell’attuale maggioranza, che avrebbero trovato il modo di farci cambiare
rapidamente idea. Ma queste, forse, sono polemiche superate. Il
fatto è che non è facile capire quale ruolo i nostri governanti assegnino
al paese. A me sembra che ne abbiano fatto il servizievole collaboratore
dei gendarmi del mondo, sempre pronto a offrire le sue basi, il suo sostegno
logistico e, se del caso, la sua partecipazione diretta alle avventure
che costoro, in piena autonomia, decidono di intraprendere. Che gli
abbiano assegnato, cioè, un ruolo eminentemente servile. Loro, evidentemente,
ritengono di poter esercitare, da quella posizione, una qualche influenza
sulla gestione generale della crisi, di poter sfruttare il proprio ruolo
di servi per influenzare in qualche modo i loro (e nostri) padroni. Una
pretesa straordinariamente futile che, nella sua fatuità, rivela
l’arroganza patetica di tutte le mosche cocchiere.
Il
guaio è che in queste ragionevoli futilità ci si esibisce mentre la guerra
continua. E non c’è niente di ragionevole (né di futile) nella guerra,
nella sua capacità di sommare infamia a infamia, di ridurre la vita umana
a merce di scambio, di misurare i propri successi sulla quantità delle
sofferenze che si riescono a infliggere agli altri. Da questa realtà
drammatica, carica di concreto dolore, chi governa riesce quasi sempre
a prescindere, assorto com’è nella contemplazione del proprio ruolo.
Chi non riesce a prescinderne sono, naturalmente, le vittime. Per
questo, sia ragionevole o no, noi saremo sempre al loro fianco.
28.03.’99