Riti di passaggio

La caccia | Trasmessa il: 03/12/2000



È strano, ma da qualche tempo mi capita di rivivere, a intervalli sempre più brevi, un episodio ricorrente.  Incontro un amico, un conoscente, qualcuno, comunque, con cui sono in rapporti cordiali e con cui condividevo, fino a quel momento, la mancanza (se si può condividere una mancanza) di quella singolare protesi tecnologica che è il telefono cellulare.  Uno, spesso, che con me condivideva anche il giudizio su chi del telefonino non sa fare a meno, uno che si faceva beffe dell’abitudine di portarne sempre un esemplare con sé, che la bollava come una forma di dipendenza e un chiaro esempio di asservimento alle mode e alle imposizioni della società dei consumi.   Bene, costui ora impugna (o è costretto a impugnare, quando viene tradito da uno squillo rivelatore) un telefonino dell’ultima generazione.  Mi guarda e, chiaramente, si vergogna un po’, tanto è vero che sente il bisogno di giustificarsi.  Talvolta invoca uno stato di (penosa) necessità: ha una vecchia mamma malata che può avere bisogno di lui da un momento all’altro; sta seguendo una delicatissima pratica professionale dei cui sviluppi deve essere continuamente informato; aspetta, da un momento all’altro, per qualche degno motivo, delle comunicazioni importanti.  Ma più spesso quel telefonino glielo ha regalato qualcuno e lui se lo porta dietro solo per far piacere a costui.   E come biasimarlo?  Di solito si tratta del coniuge, della fidanzata, del fidanzato: di qualcuno, comunque, con cui si è in una qualche intimità e cui non si può fare l’inutile sgarbo di respingere un dono, o di mostrare di non apprezzarlo.  Ma tanto lui quel telefonino non lo usa mai.  O meglio, lo usa solo per rispondere quando lo chiama qualcun altro e solo in casi di assoluta e provata necessità.  Non è come uno dei tanti poveri diavolacci dipendenti o asserviti di cui fino a ieri ci facevamo beffe insieme.
        Be’, io non mi permetto mai di mettere in dubbio quello che mi raccontano amici e conoscenti, anche se vi confesso che trovo un po’ strano il fatto che ci siano in giro tanti mariti e tante mogli, per non dire di fidanzati, fidanzate e affini, pronti a regalare al partner un oggetto di cui lui non sente il bisogno e che anzi gli procura qualche evidente fastidio ideologico.  Ma è certo che, solo pochi minuti dopo avermi ammannito la giustificazione di cui, quel tale è lì che parla bello e contento al suo telefonino, senza, per quel che ne posso capire io, che la comunicazione sia dovuta a qualcuna delle necessità appena invocate e senza dimostrare la minima riluttanza alla bisogna.  Chiacchiera come una gazza, si sposta qua e là con degli strani saltelli alla ricerca, come mi hanno spiegato, del “campo”, e mi rivolge ogni tanto quella tipica occhiata falsa che dovrebbe significare scusa un momento torno subito da te, ma vuol dire invece statti buono brutto bestione che ho delle comunicazioni importanti da affidare a questo prezioso gingillo ultrapiatto e ultraleggero, dotato di monitor a colori, di due terabyte di memoria, di quarantaquattro sonerie a scelta, di un’agenda personalizzata, della possibilità di ricevere messaggi fino a diecimila parole con disegni e fotografie e, last but not least, di un programma per investire direttamente in borsa senza passare dal via.   E io sono lì imbarazzatissimo, perché quella conversazione, che mi sforzo, per discrezione, di non ascoltare, ma come si fa, e mi sembra, detto tra noi, piuttosto cretina, ha interrotto il dialogo che il neo-telefonatore intratteneva con me fino a poco prima, mi ha messo, in un certo senso, tra parentesi, a sua disposizione, che è una cosa che, lo devo ammettere, non mi entusiasma affatto.  E in ogni caso so che quella telefonata, con la conversazione giustificatoria che l’ha preceduta, rappresenta, in realtà, una manifestazione rituale, una cerimonia promossa per sancire agli occhi di qualcuno (nello specifico ai miei) l’avvenuta promozione esistenziale e sociale dell’interlocutore, che è passato dalla categoria degli esclusi a quella degli eletti, e in via assolutamente definitiva, tanto è vero che da quel momento in poi del fatto che quell’oggetto sia un regalo, o il portato di una necessità spiacevole ma ineluttabile, non si parlerà più e io saprò che, per scambiare lazzi e battute su chi è tanto stolto da dipendere dal suo cellulare dovrò rivolgermi a qualcun altro.
        Un impresa, detto tra di noi, sempre più difficile.  Leggo sui giornali che il telefonino è presente tra noi da ben dieci anni (ed è strano: mi sembravano molti di  meno) e che se ne avvalgono oltre venticinque milioni di utenti: poco meno di un italiano su due, anche se suppongo che nell’area urbana in cui sono solito muovermi la percentuale sia parecchio superiore.  Sono cifre che possono stupire (e, per quanto mi riguarda, non cessano mai di stupirmi), ma di fronte alle quali non si discute.  Se, come qualsiasi prassi sociale, l’uso del telefonino ha un suo preciso valore di scelta ideologica, deve trattarsi di un’ideologia di massa, molto più massiccia di quelle di cui, qualche anno fa, si annunciava drammaticamente la crisi.
        Stando così le cose, forse è ora di smettere di considerare gli adepti del telefonino come dei minus habentes, come dei poveri nevrotici angosciati dall’idea che qualcuno non possa mettersi in contatto immediato con loro e viceversa.  Sì, Umberto Galimberti ha scritto su “Repubblica” (domenica 5 marzo) che per loro “il telefono è la spina che li tiene legati al mondo” e che “così perdono il mondo circostante e soprattutto il loro mondo interiore”, che non sanno più cos’è il silenzio e cos’è l’attesa, che non hanno più rispetto dell’atmosfera e che “il loro presenzialismo al mondo esterno non concede all’interlocutore alcun privilegio”, ma queste sono cose da filosofi.  I venticinque milioni di proprietari di telefoni mobili sono venticinque milioni di cittadini che prendono quello che offre il mercato.  Perché dovrebbero privarsi di un manufatto di cui tanti altri liberamente dispongono?  Non sono né dei trogloditi né dei pezzenti, ma dei figli del loro tempo.   Se la tecnologia corrente offre il telefonino, perbacco, allora lo vogliono anche loro.
        Certo, si potrebbe obiettare che quel manufatto, con le complesse strutture di sostegno che gli stanno alle spalle, è un tipico esempio di prodotto inutile, l’estrinsecazione di una tecnologia affatto superflua, nel senso che, fatte salve le speciali esigenze di pochi, gli impianti di telefonia fissa bastano ad abundantiam per soddisfare le necessità di comunicazione orale a distanza e che tutti i quattrini investiti sullo sviluppo ad oltranza dei sistemi portatili possono essere considerati soldi buttati al vento, risorse sottratte a ben altre necessità sociali.  Si potrebbe obiettare che il bisogno di acquisire quell’oggetto, per quanto diffuso, è comunque dovuto, in gran parte, al bisogno che altri hanno di venderlo, che si tratta, cioè, di un tipico bisogno indotto, il cui soddisfacimento determina una perdita, non un aumento, di libertà in chi lo realizza.  Si potrebbero persino tracciare, volendo, dei paralleli suggestivi, ancorché imprecisi, con il mercato della droga.  Ma chi ce lo fa fare?  Sappiamo tutti che oggi non si investe in nome delle necessità sociali, che si investe in nome della remuneratività dell’investimento e da questo punto di vista nessuno può negare che quella scelta sia stata molto, ma molto oculata.   Sul breve periodo, chi si compera il telefonino giova senz’altro, se non a se stesso, al sistema economico vigente e le preoccupazioni per il lungo periodo lasciamole pure ai vecchi barbogi.  Di fronte alle esigenze del mercato non si può che chinare la testa.  La prossima volta che vedrete un amico esibire, incerto tra orgoglio e vergogna, il suo nuovo telefonino, abbiate compassione di lui.  La sua esibizione, oltre che un rito di passaggio, è un rituale di resa.

12.03.’00