Ristrutturazione
Quest’anno l’estate è arrivata proprio
all’improvviso.
Fa un caldo tremendo.
E deve essersi guastata di nuovo l’aria
condizionata.
È
tipico. Con tutto quello che hanno speso per la nuova sede, appena
comincia a far caldo sul serio l’aria condizionata si guasta. E
in questi maledetti edifici nuovi, tutti vetri e metallo, si sa che quando
non funziona l’aria condizionata è un disastro. Si stava meglio dove eravamo
prima: lì di aria condizionata non se ne parlava neanche, ma bastava aprire
un paio di finestre e si aveva subito un bel riscontro, soprattutto per
quelli che avevano gli uffici sul retro, che davano sul giardino. E
oltretutto stavamo praticamente in centro e anche senza sinergie e senza
computer lavoravamo tutti molto meglio.
Intendiamoci.
Io non sono uno di quelli che stanno sempre a rimpiangere il passato.
Il passato è passato. In sé, “passato” è una stupida parola,
ein dummes Wort, come dice il Mefistofele del Faust. Sono sempre
stato il primo a dire che bisognava pensare soprattutto al futuro.
E in fondo, non lo si può negare, quelli
erano altri tempi. Il mercato era tutto diverso. Cambiare,
bisognava cambiare per forza. Ma sappiamo tutti benissimo che, da
quando siamo venuti qui, in termini di profitto le cose non sono più state
le stesse. Inutile: per fare questo lavoro serve qualcosa di più
dei computer. I miei nuovi colleghi sui computer sapranno anche tutto,
ma è poco ma sicuro che del Mefistofele del Faust non hanno mai sentito
parlare.
Già.
Adesso con i tedeschi dovranno rimettersi al passo. Non li
invidio proprio.
Per fortuna che io me ne vado in vacanza.
Appena arriva la macchina mi faccio portare direttamente in aeroporto.
Francamente, ho un gran bisogno di staccare
un po’. Non ricordo neanche da quando non mi concedo una vacanza
vera e propria e, detto tra di noi, me la merito tutta. L’anno scorso
più di una mezza settimana in montagna in febbraio e di dieci giorni in
Grecia in agosto non mi sono potuto permettere, e con la sfortuna che mi
ritrovo sono riuscito a imbroccare gli unici giorni di brutto tempo di
tutta l’estate in Grecia. Mi sono restati chissà quanti giorni di
ferie, ma sapevo benissimo fin dall’inizio che non sarei mai riuscito
a prendermeli. Sempre impegni, sempre cose da fare, sempre a rimediare
i guai che combinavano gli altri.
D’altro canto, è anche vero che lontano
dal lavoro io non riesco a resistere. Sono fatto così.
A un certo momento avevo sperato di
potermi concedere qualche giorno in autunno, magari per fare una scappata
a Bilbao a vedere il nuovo museo, che deve essere proprio una meraviglia,
ma all’ultimo momento proprio non ce l’ho fatta. Figuriamoci:
dovevano venire gli inglesi a dare un’occhiata. E visto che quella
degli inglesi, in un certo senso, era un’idea mia, e che i contatti preliminari
li avevo preso tutti io, non potevo certo lasciare che se ne occupassero
gli altri.
Fa
sempre più caldo.
Berrei volentieri qualcosa, ma sembra
che anche il frigoriferino abbia smesso di funzionare. Non c’è neanche
una bottiglia di acqua minerale fresca. Con questo clima, con il
sole che picchia sui vetri, non c’è neanche qualcosa di fresco da bere.
Se non avessi deciso di partire subito, mi sentirebbero.
Sì,
lo so, con gli inglesi è andata come è andata. Ma anche se non se
ne è fatto niente, io continuo a essere convinto che se fossimo riusciti
a metterci d’accordo con loro sarebbe stata tutta un’altra cosa. Il
più grande mercato del mondo e una tradizione, nel campo, che non se la
sogna nessuno. E poi, naturalmente, nel nostro settore gli inglesi
lavorano in stretto contatto con gli americani e quanto a nuove tecnologie
sono gli americani ad avere in mano tutto. Se c’era qualcuno con
cui valeva la pena di impostare una collaborazione a lunga scadenza, quelli
erano loro. E invece no: hanno voluto a tutti i costi fare la combinazione
con i tedeschi, con i risultati che si sono visti. Lo sanno tutti
che con i tedeschi non si collabora: quelli ci stanno soltanto se sono
sicuri che a comandare saranno loro.
Non
c’è un filo d’aria e queste maledette finestre non si aprono proprio.
Meglio così, in un certo senso: fuori, a quest’ora, c’è sempre
una terribile confusione e oggi, in particolare, dovrebbe esserci un casino
tremendo.
In questo ufficio, invece, si sta bene,
tranquilli. Fuori uno potrebbe mettersi a gridare come un pazzo e
qui si sentirebbe appena un po’ di brusio. In fondo, vale la pena
di sopportare un po’ il caldo, tanto più che l’auto dovrebbe arrivare
da un momento all’altro. A meno che si siano dimenticati di chiamarla,
naturalmente. Ma non credo: è vero che in genere sono piuttosto incapaci,
ma non fino a questo punto. Che mi serviva subito la macchina per
andare all’aeroporto gliel’ho detto e ripetuto chissà quante volte.
Non
che poi avessi tutta quella paura dei tedeschi, io. Sapevo che sarei
stato benissimo in grado di cavarmela anche con loro. Conosco la
loro mentalità meglio di tanti altri, e poi adesso siamo tutti in Europa,
no? Figuriamoci se mi lasciavo fregare così, con tutta l’esperienza
che mi ritrovo. Io i settori li conosco bene tutti: ho cominciato
con l’economica, poi sono passato ai classici, alle grandi opere, alla
narrativa… Conosco di persona metà degli autori. Con gli
inglesi, con i tedeschi, con gli svizzeri o con gli australiani è poco
ma sicuro che qui di me non possono fare a meno.
E
chissà quando arriva questa maledetta macchina.
Al
centralino non risponde nessuno. Anzi, non si sente proprio niente:
la linea sembra staccata. È incredibile: sarà una mezz’ora buona
che gli ho detto di chiamare la macchina e non solo la macchina non si
vede, ma non mi rispondono neanche al telefono. Siamo davvero ridotti alla
frutta. A pensarci bene l’idea dei tedeschi non era tanto sbagliata:
ci vuole un po’ di disciplina in questo posto e quanto a disciplina lo
sanno tutti che i tedeschi non scherzano. Finalmente li faranno filare
un po’.
Il
fatto è che qualcuno – dico qualcuno, ma chi è stato in realtà lo so benissimo
– si è messo a far circolare la voce che io avevo proposto l’accordo
con gli inglesi perché con i tedeschi proprio non avevo intenzione di starci
e di solito quando cominciano a girare delle voci di questo genere sei
già bello e fregato. Dopo due giorni sono tutti convinti che quando
arriveranno i tedeschi te ne andrai tu, cominciano a chiedersi chi metteranno
al tuo posto e quando entri in un ufficio che non è il tuo smettono improvvisamente
di parlare. Come se fosse tanto facile fregarmi, con l’esperienza
che mi ritrovo.
Ecco: finalmente qualcuno dall’altro
capo del filo si è deciso a rispondere, ma è una voce che non conosco.
Chissà chi hanno messo al centralino. Gli grido che è mezz’ora
che sto aspettando la macchina e che comincio a stancarmi. Il tipo
bofonchia qualcosa, ma io non ho voglia di sorbirmi le solite giustificazioni
del cazzo e riattacco senza starlo a sentire. Dovrebbero averlo capito,
in tutti questi anni, che quando dico una cosa è una cosa.
D’accordo. Che bisognasse cambiare
qualcosa lo sapevo anch’io. Il catalogo regge ancora, vorrebbero
avercelo in tanti un catalogo così, ma da un certo punto di vista è un
po’ antiquato. Si sente la mancanza di qualche grosso nome nuovo.
Le collane dovrebbero essere tutte risistemate. La distribuzione
tende a perdere colpi e la struttura aziendale – soprattutto – è superata,
rigida, come se fossimo ancora la vecchia impresa a proprietà famigliare
di dopo la guerra. Non basta cambiare sede e comprare un po’ di
computer per mettersi al passo coi tempi. E poi, anche a prescindere
dal fatto che i tedeschi avrebbero voluto mettere senz’altro qualche loro
uomo nelle posizioni chiave, era ovvio fin dall’inizio che qualcuno avrebbe
dovuto andarsene.
Ma
questo – naturalmente – non significava che a doversene andare sarei
stato io.
Io
questa ditta la conosco a fondo. L’ho vista crescere. Ci ho
sputato sangue. Se è diventata quello che è diventata, in gran parte,
è merito mio. Ho sempre lavorato come una bestia, d’inverno e d’estate,
e nessuno può mettere in dubbio che la mia posizione me la sia sudata.
Questo ufficio all’ultimo piano della palazzina est, con le due
finestre d’angolo, il frigoferino, la moquette, l’aria condizionata,
gli scaffali con i miei successi principali e tutto il resto me lo sono
guadagnato. Nella vecchia sede, quando finalmente mi hanno dato un
ufficio tutto per me, sono stato per anni in una specie di sgabuzzino in
cima alle scale e se veniva qualcuno a parlarmi per farlo sedere prima
dovevo tirar vie le pile di libri dalla sedia davanti alla scrivania. Sì,
d’accordo, non so usare il computer, non so niente di nuove tecnologie,
della multimedialità non potrebbe importarmene di meno, ma di libri me
ne intendo, maledizione, e qui facciamo libri, non multimedialità o nuove
tecnologie. Il computer lo lascio usare alla mia segretaria, quella
che sta qui fuori, nell’ufficio esterno e che avrebbe dovuto occuparsi
lei della macchina per l’aeroporto, delle prenotazioni e di tutto il resto.
Forse
non avrei dovuto prendermela con lei, poveraccia.
Però,
quando sono tornato in ufficio dopo aver parlato con il nuovo amministratore
delegato, quello messo su dai tedeschi, e le ho raccontato cosa era successo,
avrebbe potuto dimostrare un minimo di comprensione. In fondo è tanto
tempo che lavoriamo insieme. Invece niente. Prima ha fatto
una faccia strana e mi ha chiesto se dicevo sul serio. Poi, quando
le ho assicurato che non scherzavo e le ho fatto vedere quello che avevo
in mano mi ha guardato a bocca spalancata, poi si è voltata e ha cercato
di andarsene di corsa. Mi ha voltato le spalle, dopo tutti questi
anni.
Al
diavolo anche lei.
Non
ho ancora deciso dove andare di preciso. In Grecia certamente no:
fa davvero troppo caldo. Ma stavolta non ho bisogno di decidere tutto in
anticipo: ho detto che mi facessero trovar pronto un aereo e basta, che
poi gli avrei fatto sapere con calma che cosa avevo deciso di fare.
Già.
Chissà dove posso andare.
Forse
sarebbe stato meglio che mi muovessi con maggiore cautela, avrei dovuto
essere un po’ meno sicuro di me. Ma è inutile stare a rimuginare
sul passato. Adesso mi faccio una bella vacanza e in autunno, in un modo
o nell’altro, sistemerò tutto.
Bisogna
sempre pensare al futuro.
Anche se continua a venirmi in mente
una scena di Touch of Evil (mi sono sempre rifiutato di chiamarlo L‘infernale
Quinlan, io), quella in cui Orson Welles va a farsi predire il futuro da
Marlene Dietrich e lei, bellissima, nonostante quel suo assurdo costume
da zingara, lo guarda con un’espressione tremendamente triste, un misto
di compassione e rimpianto, e gli dice che lui, di futuro, non ne ha più.
Che
pensieri morbosi ti vengono, certe volte.
Sarà
il caldo.
Giù
in cortile c’è sempre una grande agitazione. Hanno lasciato passare
un’ambulanza e ci stanno caricando qualcuno o qualcosa. Dev’essere
il corpo dell’amministratore delegato, quello che credeva che mi sarei
lasciato sbattere fuori senza una parola di protesta.
Ma
io non sono l’ultimo degli imbecilli ed ero venuto preparato. Avrebbe
dovuto pensare che uno che abita fuori mano come me è praticamente costretti
a tenere una pistola in casa.
Non
me l’ero mai portata in giro. Non si può negare che faccia un certo
effetto.
Fa
caldo. Ho sete. Il brusio in corridoio sta diventando insopportabile.
Qualcuno sta gridando qualcosa: magari usa un megafono, come in un
telefilm.
Un
telefilm, figuriamoci. Altro che il Faust o Orson Welles.
Guardo
i tre impiegati sdraiati a faccia in giù sulla moquette, con le mani incrociate
dietro la nuca. Non devono stare comodissimi. Ma gli sta bene:
così imparano a precipitarsi nel mio ufficio solo perché mi hanno sentito
sparare alla mia segretaria.
Se
non arriva quella maledetta macchina, tra un po’ dovrò decidermi a sparare
anche a loro.
Ristrutturazione, in Città violenta, Addictions, Milano, 2000