Ristrutturazione

Racconti | Ristrutturazione, in Città violenta, Addictions, Milano, 2000



Ristrutturazione

Quest’anno l’estate è arrivata proprio all’improvviso.
Fa un caldo tremendo.
E deve essersi guastata di nuovo l’aria condizionata.
        È tipico.  Con tutto quello che hanno speso per la nuova sede, appena comincia a far caldo sul serio l’aria condizionata si guasta.  E in questi maledetti edifici nuovi, tutti vetri e metallo, si sa che quando non funziona l’aria condizionata è un disastro. Si stava meglio dove eravamo prima: lì di aria condizionata non se ne parlava neanche, ma bastava aprire un paio di finestre e si aveva subito un bel riscontro, soprattutto per quelli che avevano gli uffici sul retro, che davano sul giardino.  E oltretutto stavamo praticamente in centro e anche senza sinergie e senza computer lavoravamo tutti molto meglio.
        Intendiamoci.  Io non sono uno di quelli che stanno sempre a rimpiangere il passato.  Il passato è passato.  In sé, “passato” è una stupida parola, ein dummes Wort, come dice il Mefistofele del Faust.  Sono sempre stato il primo a dire che bisognava pensare soprattutto al futuro.
E in fondo, non lo si può negare, quelli erano altri tempi.  Il mercato era tutto diverso.  Cambiare, bisognava cambiare per forza.  Ma sappiamo tutti benissimo che, da quando siamo venuti qui, in termini di profitto le cose non sono più state le stesse.  Inutile: per fare questo lavoro serve qualcosa di più dei computer.  I miei nuovi colleghi sui computer sapranno anche tutto, ma è poco ma sicuro che del Mefistofele del Faust non hanno mai sentito parlare.
        Già.  Adesso con i tedeschi dovranno rimettersi al passo.  Non li invidio proprio.
Per fortuna che io me ne vado in vacanza.  Appena arriva la macchina mi faccio portare direttamente in aeroporto.  
Francamente, ho un gran bisogno di staccare un po’.  Non ricordo neanche da quando non mi concedo una vacanza vera e propria e, detto tra di noi, me la merito tutta.  L’anno scorso più di una mezza settimana in montagna in febbraio e di dieci giorni in Grecia in agosto non mi sono potuto permettere, e con la sfortuna che mi ritrovo sono riuscito a imbroccare gli unici giorni di brutto tempo di tutta l’estate in Grecia.  Mi sono restati chissà quanti giorni di ferie, ma sapevo benissimo fin dall’inizio che non sarei mai riuscito a prendermeli.  Sempre impegni, sempre cose da fare, sempre a rimediare i guai che combinavano gli altri.  
D’altro canto, è anche vero che lontano dal lavoro io non riesco a resistere.  Sono fatto così.
A un certo momento avevo sperato di potermi concedere qualche giorno in autunno, magari per fare una scappata a Bilbao a vedere il nuovo museo, che deve essere proprio una meraviglia, ma all’ultimo momento proprio non ce l’ho fatta.   Figuriamoci: dovevano venire gli inglesi a dare un’occhiata.  E visto che quella degli inglesi, in un certo senso, era un’idea mia, e che i contatti preliminari li avevo preso tutti io, non potevo certo lasciare che se ne occupassero gli altri.
        Fa sempre più caldo.
Berrei volentieri qualcosa, ma sembra che anche il frigoriferino abbia smesso di funzionare.  Non c’è neanche una bottiglia di acqua minerale fresca.  Con questo clima, con il sole che picchia sui vetri, non c’è neanche qualcosa di fresco da bere.  Se non avessi deciso di partire subito, mi sentirebbero.
         Sì, lo so, con gli inglesi è andata come è andata.  Ma anche se non se ne è fatto niente, io continuo a essere convinto che se fossimo riusciti a metterci d’accordo con loro sarebbe stata tutta un’altra cosa.  Il più grande mercato del mondo e una tradizione, nel campo, che non se la sogna nessuno.  E poi, naturalmente, nel nostro settore gli inglesi lavorano in stretto contatto con gli americani e quanto a nuove tecnologie sono gli americani ad avere in mano tutto.  Se c’era qualcuno con cui valeva la pena di impostare una collaborazione a lunga scadenza, quelli erano loro.  E invece no: hanno voluto a tutti i costi fare la combinazione con i tedeschi, con i risultati che si sono visti.  Lo sanno tutti che con i tedeschi non si collabora: quelli ci stanno soltanto se sono sicuri che a comandare saranno loro.
        Non c’è un filo d’aria e queste maledette finestre non si aprono proprio.  Meglio così, in un certo senso: fuori, a quest’ora, c’è sempre una terribile confusione e oggi, in particolare, dovrebbe esserci un casino tremendo.
In questo ufficio, invece, si sta bene, tranquilli.  Fuori uno potrebbe mettersi a gridare come un pazzo e qui si sentirebbe appena un po’ di brusio.  In fondo, vale la pena di sopportare un po’ il caldo, tanto più che l’auto dovrebbe arrivare da un momento all’altro.  A meno che si siano dimenticati di chiamarla, naturalmente.  Ma non credo: è vero che in genere sono piuttosto incapaci, ma non fino a questo punto.  Che mi serviva subito la macchina per andare all’aeroporto gliel’ho detto e ripetuto chissà quante volte.
        Non che poi avessi tutta quella paura dei tedeschi, io.  Sapevo che sarei stato benissimo in grado di cavarmela anche con loro.   Conosco la loro mentalità meglio di tanti altri, e poi adesso siamo tutti in Europa, no?  Figuriamoci se mi lasciavo fregare così, con tutta l’esperienza che mi ritrovo.  Io i settori li conosco bene tutti: ho cominciato con l’economica, poi sono passato ai classici, alle grandi opere, alla narrativa…   Conosco di persona metà degli autori.  Con gli inglesi, con i tedeschi, con gli svizzeri o con gli australiani è poco ma sicuro che qui di me non possono fare a meno.
        E chissà quando arriva questa maledetta macchina.
        Al centralino non risponde nessuno.  Anzi, non si sente proprio niente: la linea sembra staccata.  È incredibile: sarà una mezz’ora buona che gli ho detto di chiamare la macchina e non solo la macchina non si vede, ma non mi rispondono neanche al telefono. Siamo davvero ridotti alla frutta.  A pensarci bene l’idea dei tedeschi non era tanto sbagliata: ci vuole un po’ di disciplina in questo posto e quanto a disciplina lo sanno tutti che i tedeschi non scherzano.  Finalmente li faranno filare un po’.
        Il fatto è che qualcuno – dico qualcuno, ma chi è stato in realtà lo so benissimo – si è messo a far circolare la voce che io avevo proposto l’accordo con gli inglesi perché con i tedeschi proprio non avevo intenzione di starci e di solito quando cominciano a girare delle voci di questo genere sei già bello e fregato.  Dopo due giorni sono tutti convinti che quando arriveranno i tedeschi te ne andrai tu, cominciano a chiedersi chi metteranno al tuo posto e quando entri in un ufficio che non è il tuo smettono improvvisamente di parlare.  Come se fosse tanto facile fregarmi, con l’esperienza che mi ritrovo.
Ecco: finalmente qualcuno dall’altro capo del filo si è deciso a rispondere, ma è una voce che non conosco.  Chissà chi hanno messo al centralino.  Gli grido che è mezz’ora che sto aspettando la macchina e che comincio a stancarmi.  Il tipo bofonchia qualcosa, ma io non ho voglia di sorbirmi le solite giustificazioni del cazzo e riattacco senza starlo a sentire.  Dovrebbero averlo capito, in tutti questi anni, che quando dico una cosa è una cosa.
D’accordo.  Che bisognasse cambiare qualcosa lo sapevo anch’io.  Il catalogo regge ancora, vorrebbero avercelo in tanti un catalogo così, ma da un certo punto di vista è un po’ antiquato.  Si sente la mancanza di qualche grosso nome nuovo.  Le collane dovrebbero essere tutte risistemate. La distribuzione tende a perdere colpi e la struttura aziendale – soprattutto – è superata, rigida, come se fossimo ancora la vecchia impresa a proprietà famigliare di dopo la guerra.  Non basta cambiare sede e comprare un po’ di computer per mettersi al passo coi tempi.  E poi, anche a prescindere dal fatto che i tedeschi avrebbero voluto mettere senz’altro qualche loro uomo nelle posizioni chiave, era ovvio fin dall’inizio che qualcuno avrebbe dovuto andarsene.
        Ma questo – naturalmente – non significava che a doversene andare sarei stato io.
        Io questa ditta la conosco a fondo.  L’ho vista crescere.  Ci ho sputato sangue.  Se è diventata quello che è diventata, in gran parte, è merito mio.  Ho sempre lavorato come una bestia, d’inverno e d’estate, e nessuno può mettere in dubbio che la mia posizione me la sia sudata.  Questo ufficio all’ultimo piano della palazzina est, con le due finestre d’angolo, il frigoferino, la moquette, l’aria condizionata, gli scaffali con i miei successi principali e tutto il resto me lo sono guadagnato.  Nella vecchia sede, quando finalmente mi hanno dato un ufficio tutto per me, sono stato per anni in una specie di sgabuzzino in cima alle scale e se veniva qualcuno a parlarmi per farlo sedere prima dovevo tirar vie le pile di libri dalla sedia davanti alla scrivania.  Sì, d’accordo, non so usare il computer, non so niente di nuove tecnologie, della multimedialità non potrebbe importarmene di meno, ma di libri me ne intendo, maledizione, e qui facciamo libri, non multimedialità o nuove tecnologie.  Il computer lo lascio usare alla mia segretaria, quella che sta qui fuori, nell’ufficio esterno e che avrebbe dovuto occuparsi lei della macchina per l’aeroporto, delle prenotazioni e di tutto il resto.
        Forse non avrei dovuto prendermela con lei, poveraccia.
        Però, quando sono tornato in ufficio dopo aver parlato con il nuovo amministratore delegato, quello messo su dai tedeschi, e le ho raccontato cosa era successo, avrebbe potuto dimostrare un minimo di comprensione.  In fondo è tanto tempo che lavoriamo insieme.  Invece niente.  Prima ha fatto una faccia strana e mi ha chiesto se dicevo sul serio.  Poi, quando le ho assicurato che non scherzavo e le ho fatto vedere quello che avevo in mano mi ha guardato a bocca spalancata, poi si è voltata e ha cercato di andarsene di corsa.  Mi ha voltato le spalle, dopo tutti questi anni.
        Al diavolo anche lei.
        Non ho ancora deciso dove andare di preciso.  In Grecia certamente no: fa davvero troppo caldo. Ma stavolta non ho bisogno di decidere tutto in anticipo: ho detto che mi facessero trovar pronto un aereo e basta, che poi gli avrei fatto sapere con calma che cosa avevo deciso di fare.
        Già.  Chissà dove posso andare.
        Forse sarebbe stato meglio che mi muovessi con maggiore cautela, avrei dovuto essere un po’ meno sicuro di me.  Ma è inutile stare a rimuginare sul passato. Adesso mi faccio una bella vacanza e in autunno, in un modo o nell’altro, sistemerò tutto.
        Bisogna sempre pensare al futuro.
Anche se continua a venirmi in mente una scena di Touch of Evil (mi sono sempre rifiutato di chiamarlo L‘infernale Quinlan, io), quella in cui Orson Welles va a farsi predire il futuro da Marlene Dietrich e lei, bellissima, nonostante quel suo assurdo costume da zingara, lo guarda con un’espressione tremendamente triste, un misto di compassione e rimpianto, e gli dice che lui, di futuro, non ne ha più.  
        Che pensieri morbosi ti vengono, certe volte.
        Sarà il caldo.
        Giù in cortile c’è sempre una grande agitazione.  Hanno lasciato passare un’ambulanza e ci stanno caricando qualcuno o qualcosa.  Dev’essere il corpo dell’amministratore delegato, quello che credeva che mi sarei lasciato sbattere fuori senza una parola di protesta.
        Ma io non sono l’ultimo degli imbecilli ed ero venuto preparato.  Avrebbe dovuto pensare che uno che abita fuori mano come me è praticamente costretti a tenere una pistola in casa.
        Non me l’ero mai portata in giro.  Non si può negare che faccia un certo effetto.
        Fa caldo.  Ho sete.  Il brusio in corridoio sta diventando insopportabile.  Qualcuno sta gridando qualcosa: magari usa un megafono, come in un telefilm.
        Un telefilm, figuriamoci.  Altro che il Faust o Orson Welles.
        Guardo i tre impiegati sdraiati a faccia in giù sulla moquette, con le mani incrociate dietro la nuca.  Non devono stare comodissimi.  Ma gli sta bene: così imparano a precipitarsi nel mio ufficio solo perché mi hanno sentito sparare alla mia segretaria.
        Se non arriva quella maledetta macchina, tra un po’ dovrò decidermi a sparare anche a loro.

Ristrutturazione, in Città violenta, Addictions, Milano, 2000