Dunque, cerchiamo di capire. Il
Parlamento italiano, spinto, come sempre, dalla incoercibile vocazione
alla pace della sua maggioranza, ha votato, mercoledì scorso, una mozione
che, oltre ad approvare l’azione che il governo, a quanto pare, stava
“svolgendo per una soluzione politica del conflitto” (un’azione che
a me, vi confesso, era totalmente sfuggita), chiedeva al governo stesso
di “sviluppare con la massima rapidità presso gli alleati della NATO e
nelle sedi internazionali un’iniziativa volta alla approvazione da parte
del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di una risoluzione sul Kossovo contenente
i punti indicati nella riunione del G8” e specificava come per favorire
un tal esito fosse necessaria “una sospensione dei bombardamenti”. Benissimo.
È vero che subito dopo si rispecificava che tale sospensione
doveva esser volta “a consentire la convocazione del Consiglio di Sicurezza
sulla base di una risoluzione e a verificare la disponibilità del Governo
Jugoslavo ad applicarla”, il che complicava alquanto tutta la faccenda,
perché una cosa è chiedere di smetterla per un po’ con i raid con il fine
di trovare, nelle sedi opportune, una soluzione su cui concordino tutti,
e un’altra è proporre di adire le sedi opportune solo dopo aver già trovato,
evidentemente altrove, una proposta in base alla quale far cessare i raid,
ma insomma. La politica è la politica e si basa notoriamente sul
compromesso: quel testo era stato formulato dopo lunghe e penose trattative,
era stato modificato in extremis su richiesta del governo, introducendovi
la seconda specificazione, e su di esso la maggioranza ha votato compatta.
Anzi, sulla seconda parte ha votato a favore persino Rifondazione.
Pur a prezzo di qualche ambiguità, il termine “sospensione dei bombardamenti”
compariva per la prima volta in una delibera del Parlamento italiano. Un
successo della volontà di pace e della capacità di dialogo.
Soltanto
due giorni dopo si riusciva a scoprire, non senza qualche fatica, visto
che l’impaginazione dei quotidiani era ovviamente sconvolta dalla notizia
dell’omicidio rivendicato dalle misteriosamente ricomparse Brigate Rosse,
che a quell’ambiguità il governo italiano non ha ritenuto necessario sottomettersi.
D’Alema si è presentato a Bruxelles per spiegare che la proposta
italiana era quella di sospendere i bombardamenti, sì, ma quando “ci sarà
un testo concordato con russi e cinesi per un voto all’ONU” e reclamando
da Belgrado una risposta immediata (”diciamo entro settantadue ore”)
pena la ripresa dell’offensiva e questa volta anche per via di terra.
Una clausola, quest’ultima, che significava la volontà di fare la faccia
feroce senza alcun vero motivo, perché, visto che russi e cinesi, come
tutti sanno, sono disposti a concordare un testo solo quando su di esso
si avrà l’adesione della Jugoslavia e l’impegno degli occidentali ad
accettarlo, la proposta finale dell’Italia si riduceva, a quel punto,
al suggerimento di smettere i raid quando si sarà raggiunto un accordo,
che è più o meno le stesso che dire che la pace verrà quando la guerra
sarà finita. Per cui la signora Allbright e i suoi portavoce non
hanno avuto il minimo scrupolo di ribattere seduta stante che di una tregua,
di settantadue, di quarantotto o di ventiquattro ore, non si parla nemmeno,
e il segretario Solana ha potuto dichiarare, senza tema di complicazioni,
che “la proposta italiana non è in contraddizione con le idee su cui la
NATO ha lavorato fin dall’inizio.” E siccome la NATO, più che sulle
idee, lavora sui bersagli, i bombardamenti sono continuati più feroci che
mai, con quell’accentuata tendenza a colpire “per sbaglio” i più svariati
obiettivi civili e a moltiplicare i relativi “danni collaterali” che
l’aviazione alleata dimostra ogni volta che qualcuno si azzarda, con maggiore
o minore serietà, a parlare di tregua. Sarà un caso, ma dopo la visita
di D’Alema a Bruxelles sono state colpite una clinica neurologica, una
prigione e tre, dicesi tre, sedi diplomatiche.
In
tutto questo, naturalmente, non c’è niente di strano. D’Alema ha
fatto il suo mestiere e la NATO anche. Certo, il fatto che la nostra
Camera dei Deputati abbia votato (e il nostro governo abbia fatto propria)
una mozione, per così dire, à double face, una mozione che da una parte
chiedeva la tregua e dall’altra la subordinava a una condizione praticamente
impossibile da realizzarsi, potrebbe, dal punto di vista del rigore parlamentare,
aprire il fianco a qualche sommessa critica, ma che volete che sia? I
nostri parlamentari con il rigore non hanno mai avuto a che fare più di
tanto: hanno, nello specifico, il problema, ben più concreto, di esibire
– da un lato – una qualche volontà di pace, a uso di un elettorato che,
in nome delle pur lontane motivazioni di sinistra che lo tengono insieme,
non ha ancora digerito del tutto la tecnica di imporre la democrazia etnica
a base di raid aerei, e di non far mancare – dall’altro – il loro appoggio
a un governo che non ha né la pretesa né la capacità sottrarsi alla propria
sudditanza internazionale. Con la mozione di mercoledì sono tutti
contenti: nessuno potrà accusarli di non aver chiesto la fine dei bombardamenti
(c’è scritto, nero su bianco) e nessuno potrà imputar loro di aver messo
in discussione la volontà di chi, in simili faccende, comanda davvero.
E poi, se saremo bravi, la NATO ha persino promesso di darci una
mano a rastrellare qualche po’ di bombe dall’Adriatico: cosa vogliamo
di più?
23.05.’99