Faceva un po’ impressione seguire in televisione, tra
giovedì e venerdì, le tappe dell’ultimo viaggio di Yassir Arafat verso
il mausoleo prigione di Ramallah. Funerali quasi di stato a Parigi,
con la bara avvolta nella bandiera portata a spalle da militari in pennacchio
e chepì, un picchetto in alta uniforme a rendere gli onori, una banda militare
a suonare la marcia funebre, ministri impettiti a esprimere un improbabile
cordoglio. E poi l’arrivo al Cairo: altri ministri e altri militari
in alta uniforme, ancora un picchetto d’onore, ancora una banda… e
i funerali il giorno dopo, in una moschea interna alla scuola per allievi
ufficiali (!), di fronte a un pubblico a invito di presidenti, ministri
e generali, con ulteriori picchetti e altre bande, fino al tragitto finale
sul classico affusto di cannone trainato da sei cavalli neri e all’imbarco,
sulle spalle dell’ennesimo gruppo di alti ufficiali in ghingheri e alamari,
sull’aereo in partenza per il Sinai. Un tentativo disperato, e tutto
sommato futile, di sequestrare anche da morto il vecchio leader, sigillandone
il ricordo e l’immagine in un alone di gloria militare. Futile,
perché nessuno ha potuto impedire al popolo di Ramallah di stringersi poi,
con ben altra ritualità e ben altro significato, attorno alle spoglie del
suo capo indiscusso. Ma per provarci, be’, per provarci ci hanno
provato.
Il che può sembrare
persino strano, perché Arafat è stato, sì, un grande combattente, ma di
militaresco ha sempre avuto ben poco, nonostante quella specie di stazzonata
uniforme cachi in cui si infagottava. Glielo precludeva la sua stessa
figura fisica, bassetto e grassoccio qual era, con quell’assurda kefiah
che gli stava bene soltanto nelle foto frontali in primo piano, meglio
se riprese dalle spalle in su, ma gli sventolava incongruamente di fianco
e sulla schiena quando lo inquadravano a figura intera e, comunque, non
voleva essere un simbolo militare, ma il ricordo di un’impresa compiuta
senza esercito alcuno, l’insurrezione palestinese contro il mandato britannico
nel ‘35. E poi, nessuno ignora che tutte le volte che, nella sua
travagliata carriera, ha scelto l’opzione militare, Arafat le ha sempre
prese di santa ragione, come ad Amman nel 1970 e nel 1982 a Beirut, e che
la sua unica forza – nonostante tutto – consisteva nelle sue capacità
di mediazione politica e nel rapporto carismatico che sapeva instaurare
con le masse, due competenze che non sono esattamente tra quelle che si
insegnano alla scuola di guerra.
Una celebrazione incongrua,
quindi, se non una vera e propria mascherata non priva di aspetti grotteschi.
Ma null’altro, del resto, potevano fare di Arafat i “grandi” del
mondo, non dico i nemici che, gioendo della sua morte, hanno fatto solo
il loro mestiere, ma i falsi amici e gli alleati infidi, tipo i governanti
europei che hanno pilatescamente messo tra parentesi la sua causa o i potentati
arabi che non hanno mai smesso di diffidarne. Non potendo, per ora, cancellarlo
dalla storia, costoro potevano solo cercare di ricondurne il ricordo nella
dimensione istituzionale dei governi e degli eserciti, a rischio dell’assurdo
di dover concedere, come si è detto, “gli onori dovuti ai grandi statisti”
al leader di un popolo cui si è negato e si continua a negare uno stato.
Non è stata soltanto una specie di risarcimento postumo
e neanche una semplice, sia pur gigantesca, manifestazione di ipocrisia.
Il rituale militare, per quanto ridicolo, non è mai inutile: serve,
tra l’altro, a normalizzare le anomalie, a partire da quell’anomalia
suprema che, in una società che si pretende civile, è sempre la guerra.
Non è strano, quindi, che a esso si sia cercato di ricorrere per
esorcizzare solennemente quella che, nel panorama geopolitico dell’ultimo
secolo, rappresenta una delle anomalie più scandalose, come l’ostinata
volontà di esistere, nonostante tutto, del popolo palestinese.
Perché il problema,
adesso, non consiste, checché abbiano scritto i nostri dotti commentatori,
negli errori che Arafat può avere o non avere commesso. I palestinesi
avranno i loro torti, anche se i torti dei popoli oppressi, colonizzati
e occupati non possono mai essere messi sullo stesso piano di quelli degli
occupanti, dei coloni e degli oppressori. Il problema è sempre quello,
che non si potrà sperare di avere un po’ di pace in quell’angolo cruciale
del pianeta finché non si sarà resa giustizia, in qualche modo, a
quella nazione di spossessati e di esuli a casa loro. Gli eserciti,
i governi e le diplomazie finora, non hanno avvicinato di un millimetro
la soluzione. Non c’è che da sperare nella gente normale, quella
che alla Muqata si è stretta con tanta disperata emotività attorno alla
bara.
14.11.’04