Quella del 25 aprile, diciamocelo pure,
è sempre stata una data un po’ ambigua e le manifestazioni indette per
celebrarla hanno sempre avuto un certo carattere controverso. E sfido:
la ricorrenza ricorda, come tutti sappiamo, la Liberazione, ma dire liberazione,
in fondo, può significare tutto o niente. Può significare, nello
specifico, l’abbattimento della dittatura e il recupero di buona parte
dei suoi uomini e delle sue istituzioni in un regime a democrazia piuttosto
limitata; la fine della guerra e il crollo delle speranze di autentico
rinnovamento sociale; il trionfo momentaneo dei partigiani e il loro definitivo
disarmo. Nella dialettica, non sempre pacifica, tra chi sottolineava
questo o quel corno del dilemma è consistita buona parte della storia ideologica
del nostro paese.
Io,
personalmente, di 25 aprile ne ho vissuti ormai parecchi. Ricordo
quelli, pomposi e retorici, degli anni del predominio democristiano, quando,
per dirla con Ennio Flaiano, saliva sul palco Sua Eccellenza, si inchinava
a Sua Eminenza ed esaltava i valori della Resistenza, mentre ai reduci
della lotta partigiana veniva vietato, a cura delle loro stesse organizzazioni,
di sfilare con gli emblemi di partito e – soprattutto – con il fazzoletto
rosso al collo, per non turbare il ricordo o la prospettiva dell’unità
nazionale, e ricordo quelli, rissosi e polemici, degli anni successivi.
Allora, a parecchie persone apparentemente ragionevoli, me compreso,
sembrava importantissimo spendersi, a prezzo di immani sforzi organizzativi
e mediazioni politiche estenuanti, perché il tradizionale corteo non si
fermasse in una certa piazza ma procedesse verso un’altra, che si spingesse,
possibilmente, fino al mitico piazzale Loreto, dove, assicuravamo un po’
truculenti, c’era sempre tanto posto. Una pretesa che adombrava
una fiducia un po’ ingenua nel potere dei simboli, ma che esprimeva anche
il tentativo di non accontentarsi della versione ufficiale della storia
e tanto peggio se la versione che le si contrapponeva era quasi ugualmente
rozza. Nonostante l’apparente futilità di quelle polemiche, forse
non è ancora arrivato il momento di pentirsene.
Oggi,
sembra incredibile, ci tocca di festeggiare la cinquantaquattresima ricorrenza
del 25 aprile in stato di guerra. Una guerra vera, con i bombardamenti,
le stragi, le deportazioni e tutto il resto, una guerra in cui il nostro
paese è schierato, per motivi che ad alcuni sembrano ottimi, ma sui quali
sarà pur lecito dissentire, o semplicemente discutere, dalla parte degli
aggressori. In cui, anzi, in quanto punto di partenza di tutti i
raid aerei ed esclusiva base di appoggio navale, l’Italia ha un ruolo
affatto determinante, nel senso che se non ci stava, di bombardare la Jugoslavia
o invadere il Kosovo non se ne parlava neanche. E così, ci
tocca ancora spenderci perché nei cortei di questo pomeriggio, accanto
ai sopravvissuti della guerra di ieri, ai sindaci con il gonfalone e i
vigili urbani, alle forze politiche che a questo bel risultato ci hanno
condotto in fertile concordia d’intenti tra governo e opposizione, ci
siano, e si facciano notare, quanti di fare la guerra proprio non se la
sentono.
Vi
confesso di non essere tanto sicuro di come andrà. Mi sembra che
alla più parte dei nostri concittadini questa guerra vada benissimo. Ideologicamente,
è una guerra piuttosto comoda. Dà la soddisfazione di essere, al
tempo stesso, dalla parte dei buoni e da quella dei potenti. Di punire
i malvagi e di aiutare i deboli e senza correre rischi (e delle spese,
per ora, non si parla). E chi è preso da questa confortante
visione, non si rende conto che. Non solo perché i bombardamenti, che dovevano
durare due o tre giorni per permettere a Milosevic di cedere senza perdere
troppo la faccia, vanno avanti inutilmente da un mese, ma perché i profughi,
ormai, non hanno più un paese in cui rientrare e i serbi, quali che siano
le responsabilità del loro governo, hanno già subito la distruzione delle
strutture industriali ed economiche del loro paese, il che significa l’esclusione
dalla civiltà materiale europea e, in ultima analisi, un’alta probabilità
di morire in massa di fame. Di fronte a queste prospettive, non proprio
piacevoli, basta limitarsi a far finta di niente e compiacersi perché,
come continuano a ripetere i nostri governanti, l’attacco di terra, finora,
non è previsto. Naturalmente l’attacco di terra è previsto, previstissimo,
anzi, è già cominciato alla grande e il fatto che, per ora, sia condotto
prevalentemente da quei poveracci degli albanesi non dovrebbe fare una
gran differenza. Ma, francamente, credete proprio che a chi a va
fare i picnic ad Aviano per vedere i bombardieri che partono possa importare
davvero degli albanesi? Quando, a guerra finita, cercheranno rifugio
nel nostro paese, potremo ricominciare a speronare le navi che li trasportano.
È già successo, poco più di due anni fa.
* * *
A proposito di attacchi di terra. Un
quotidiano molto vicino al governo pubblicava l’altro ieri, come se niente
fosse, le cartine dell’invasione della Serbia. Serviranno duecentomila
uomini, assicurava l’articolista, dopo aver intervistato non ricordo più
qual generale, ma saranno quasi tutti inglesi e americani, con qualche
tedesco tanto per far numero. Le forze italiane “si concentrerebbero
nel supporto logistico”. Molto tranquillizzante, davvero. Ma sarebbe
interessante sapere in base a che ipotesi si spiega quell’ottimistico
condizionale.
25.04.’99