Riconoscimenti estremi

La caccia | Trasmessa il: 03/26/2006




Non conosco, naturalmente, i motivi per cui il Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro degli Interni, ha ritenuto di conferire la medaglia d’oro al valor civile alla memoria di Fabrizio Quattrocchi, un personaggio di cui pure non so molto, salvo il fatto che gli spetta tutto il rispetto dovuto a chi ha perso la vita in un paese ostile, scontando colpe e responsabilità che non sono certamente sue.   Non so neanche perché di analoghe onoranze non siano stati giudicati degni né Enrico Baldoni, né alcun altro degli ormai troppi connazionali che nell’antica Babilonia sono andati a farsi tragicamente ammazzare, ma ogni caso – naturalmente – è diverso dagli altri, come diverse sono le considerazioni che ispira.  Immagino anch’io, come molti, che il presidente, cui sono notoriamente cari i valori dell’identità nazionale, sia stato suggestionato soprattutto dalle ultime parole dell’ostaggio prigioniero, da quel “vi faccio vedere come muore un italiano” che, registrato da un video impietoso, è stato poi divulgato dai media in tutta la sua drammaticità.   E anche se io, personalmente, quel documento avrei preferito non trasmetterlo, non voglio certo negare che si tratti di un’affermazione che fa onore a chi ha avuto la forza, in quel momento, di pronunciarla.

       Questo non significa, tuttavia, che gli italiani possano o debbano morire in maniera particolare.  Muoiono, ahimè, come tutti gli altri: con coraggio, se di coraggio sono dotati, e senza, se quel dono non è stato loro concesso.  Qualcuno muore disperandosi, qualcuno con dignità, qualcuno con fatica e qualcun altro – i più fortunati, a dire degli antichi –  senza accorgersene nemmeno.  Privilegiato, in ogni popolo e in ogni paese, è chi sa trovare nelle proprie certezze, nelle proprie speranze, nelle proprie illusioni o semplicemente nella propria adrenalina la forza di esprimere in extremis almeno una ipotesi sul significato di una vicenda, la vita di noi tutti, il cui significato ultimo è appunto solo quello che gli sa dare ciascuno dei suoi protagonisti.  La raccolta delle ultime parole degli uomini famosi è un genere tanto diffuso, in tutte le letterature, proprio perché offre a tutti un modello cui ciascuno spera, a tempo debito, di sapersi adeguare, l’atteggiamento di chi, di fronte alla prospettiva dell’inevitabile annichilimento, non abdica al compito squisitamente umano di esprimere, finché può ancora esprimerne, valori e significati.  Il concetto, si sa, è di lontana origine stoica, ma è stato fatto proprio da tempo da tutta la cultura occidentale, laica e religiosa, e trova precise corrispondenze in molte altre tradizioni, com’è forse inevitabile, vista l’universalità dell’esperienza cui rimanda.

       Onore dunque a Fabrizio Quattrocchi, che, nella prospettiva imminente di venire brutalmente assassinato, ha voluto legare il senso della propria vita all’orgoglio di essere italiano.  È stata una scelta sua e anche chi non la dovesse condividere è tenuto a rispettarla e onorarla.  E tra gli impegni di chi la vuole onorare, naturalmente, dovrà esserci anche quello di astenersi dalle sciocchezze, tipo dire che il riconoscimento presidenziale può giovare alla riqualificazione del ruolo delle boodyguards o i vari tentativi di annettersi la frase in questione alla stregua di uno slogan politico qualsiasi.  Il problema, in queste circostanze, è che gli stessi riconoscimenti ufficiali, medaglie comprese, corrono il rischio di sembrare inadeguati, se non addirittura derogatori, proprio perché richiamano con innegabile brutalità coloro che vogliono onorare dalla sfera dei valori esistenziali a quella delle del banale dibattito di tutti i giorni.   Fortunati – come dice il poeta – sono i paesi che non hanno bisogno di eroi e ancora più fortunati quelli che sanno resistere alla tentazione di farsene una bandiera.

26.03.’06