Rettifiche e ruoli

La caccia | Trasmessa il: 10/12/2008


    Chissà perché Berlusconi ha sentito il bisogno di smentire, di ritrattare, di rettificare o di ridimensionare (vedete un po' voi) la dichiarazione che tutti i cronisti presenti pur avevano registrato, quando, uscendo dal Consiglio dei ministri di martedì scorso, gli era scappato detto che a lui, di Veltroni e della sua disponibilità a collaborare, non gliene fregava niente. L'espressione, certo, è un po' volgare, ma tanto diffusa che nessuno ci bada più, e l'usarla in pubblico è considerato segno di maleducazione, ma si tratta di una sfumatura di volgarità e maleducazione non proprio estranea alla personalità pubblica del capo del governo, di una sorta di popolare franchezza di cui il personaggio, così amabile e gentile di modi in tante altre occasioni, non sembra affatto vergognarsi e non poco contribuisce, del resto, alla sua popolarità. Avrà ceduto, suppongo, alle pressioni dei suoi consiglieri, sempre affannati nel tentativo di riportare la sua naturale esuberanza a dimensioni accettabili e, d'altronde, lo ha fatto con tanta discrezione che i termini esatti della rettifica, in realtà, non si ritrovano da nessuna parte. Scrivono i giornali che ha rettificato e tant'è. Cosa abbia voluto dire in realtà possiamo solo immaginarlo.
    Poco male, d'altronde, perché la dichiarazione originale, a pensarci, non era poi tanto ingiustificata. Di motivi per prestare orecchio benevolo al povero Walter e alle sue profferte di disponibilità, Berlusconi non ne ha davvero. Da lui ha già avuto più o meno tutto quello che poteva avere, da quella spaccatura della sinistra che gli ha offerto il trionfo elettorale su un piatto d'argento a quella sorta di mite remissività che sembra fatta apposta per garantire alla destra il predominio per almeno un paio di generazioni. E visto che dispone della maggioranza necessaria per fare, almeno in Parlamento, tutto quello che vuole, perché mai dovrebbe mostrarsi interessato alle istanze di uno che, al momento, non sembra nemmeno in grado di governare il proprio partito? La politica non è un pranzo di gala e i vincitori non hanno né il tempo né la convenienza di vagliare le proposte degli sconfitti. Anche Veltroni, chissà, potrà avere ogni tanto un'idea interessante, ma in questo caso, come è successo per tante idee e proposte del compianto governo Prodi, basterà rubargliela.
    Il che non significa, è ovvio, che quello di farsi rubare le idee sia l'unico compito dell'opposizione. Ma in un sistema parlamentare classico, quale il nostro si vanta, un po' incongruamente, di essere, il contributo di chi sta all'opposizione consiste, appunto, nella sua capacità di opporsi, di fare il proprio mestiere con tutti i mezzi consentiti, cercando di non lasciarne passare una che sia una a chi governa e di costruire, con la necessaria pazienza e quel pizzico di inevitabile stoicismo che la politica esige, una possibile ipotesi alternativa. Ma non sembra che nel Partito Democratico e dintorni la pazienza e lo stoicismo allignino più che tanto e infatti sono tutti lì, che sgomitano per mostrarsi quanto più “disponibili” e “costruttivi” possibile. Il tutto nell'interesse del paese, per carità, e in considerazione della gravità del momento. Ma il tutto anche nella prospettiva di una specie di cogestione della crisi, di una riedizione di quella solidarietà nazionale in cui la sinistra, in Italia, ha l'innata tendenza a infilarsi, a rischio perpetuo di farsi spennare. Ora, questa ipotesi, francamente, non ci interessa. Per essere ancora più espliciti, non ce ne frega niente neanche a noi.
    12.10.'08