Caio Giulio Cesare, come ricorderanno
quanti di voi hanno avuto occasione di fare gli studi classici, nei suoi
Commentarii parlava di se stesso in terza persona. Non lo faceva,
va detto, per vezzo o per supponenza: come tutti gli autori antichi aveva
il problema di attenersi al proprio modello letterario e visto che il modello
dei Commentarii, stringi stringi, è l’Anabasi di Senofonte, in cui pure
l’autore parla di sé in quel modo, non aveva poi molte possibilità di
scelta.
Anche
Senofonte, d’altra parte, aveva i suoi motivi. Non si trattava
di un problema di modelli, perché il genere della memorialistica militare,
per quanto ne sappiamo, lo ha inventato lui, ma nelle lettere greche le
narrazioni in prima persona non erano, ai suoi tempi, particolarmente diffuse.
Un personaggio poteva parlare di sé dicendo “io”, come fa Ulisse
dal IX al XII canto dell’Odissea, ma a patto che fosse debitamente introdotta,
in terza persona, una situazione tale da giustificare un lungo racconto
(nel caso, la richiesta del re dei Feaci di dar conto di sé e delle proprie
vicende). Gli autori, anche quando sono personaggi delle proprie
narrazioni, non avevano di queste libertà, salvo – forse – nei prologhi.
Lo vediamo, per limitarci agli storici, in Erodoto e anche in Tucidide,
quando allude, con molta discrezione, al suo sfortunato comando nella campagna
di Anfipoli.
E
poi, naturalmente, Senofonte era spinto da motivazioni di carattere, diciamo,
più personale. Se interpretiamo correttamente un passaggio delle
sue Elleniche, anche alla luce di un’indiscrezione del De Gloria Atheniensium
di Plutarco (345 e), lui l’Anabasi l’aveva originariamente pubblicata
sotto lo pseudonimo di Temistogene di Siracusa, il che naturalmente significa
che in prima persona non avrebbe potuto scriverla neanche volendo.
La sua era quindi una scelta obbligata e, diremmo, appropriata, perché
chiunque abbia occasione di scorrere quell’interessante operetta non ha
difficoltà a scoprire che, a partire dal primo capitolo del libro III,
la narrazione è interamente dedicata all’esaltazione dell’opera, della
sagacia, del coraggio e della preveggenza di Senofonte stesso: una cosa
che, lo ammetterete, se fatta a proprio nome avrebbe potuto suscitare commenti
spiacevoli. Per di più l’astuto ateniese ha una certa tendenza ad
anteporre la propria attività a quella di Chirisofo, l’ufficiale spartano
che della spedizione aveva il comando effettivo, e se noi gli possiamo
facilmente perdonare questo piccolo atto di vanità, i contemporanei avrebbero
potuto essere meno generosi.
Cesare,
a dire il vero, non è così prodigo di lodi verso se stesso. Ma anche
lui ha i suoi problemi di presentazione della materia. Deve mettere
nel giusto risalto la grandezza e l’importanza delle proprie imprese,
perché se no cosa scriverebbe a fare, ma ha anche tutta la convenienza
a tenersi un po’ vago su certi particolari. Deve presentare le sue
gesta come gloriose, sì, ma, in un certo senso, involontarie. Il
suo problema, ideologicamente parlando, non è soltanto quello di spiegare
che non è stato lui ad attaccare Pompeo, nonostante l’iniziativa di passare
in armi il confine del Rubicone: la soluzione, in questo caso, è abbastanza
facile, perché in tutte le narrazioni di guerre civili si è sempre dato
per scontato che la colpa sia comunque dell’altro. Il fatto è che
deve anche assicurare ai lettori che non era affatto sua intenzione quella
di conquistare la Gallia, un incarico che, in effetti, il Senato si era
ben guardato dal dargli. Da come la presenta lui, la Gallia, poveretto,
era stato costretto ad annettersela per difendersi da un improvvido sconfinamento
di Elvezii in Provenza. E capirete che, quando si avanzano di queste
spiegazioni, è sempre buona norma tenersene un poco distaccati, e che la
terza persona in un modo o nell’altro aiuta.
Come
aiuta sempre ogni volta che si desidera lodare se stessi, sottovalutare
gli altri, avanzare spiegazioni incredibili e sottacere particolari imbarazzanti.
E per utilizzarla in tal senso non è neanche necessario essere stati
allievi di Socrate come Senofonte o discendere in linea diretta dalla dea
Venere, come Giulio Cesare. Pensate al nostro Berlusconi: anche lui parla
spesso di sé in terza persona (l’altro ieri ha avuto il coraggio di dire
in diretta TV che “la fede e la passione europeista del presidente di
Forza Italia e dell’attuale presidente del consiglio è indiscutibile,
addirittura superiore a quella di tanti altri protagonisti della politica
europea”) e, tutto sommato, lo fa esattamente per quei motivi. E
non venitemi a dire che è soltanto una coincidenza: è lui stesso che non
fa che ripetere quanto fosse appassionato, da giovane, degli studi classici.
13.01.’02