Pubblicità monumentale

La caccia | Trasmessa il: 12/14/2008


    L'Arco della Pace al Parco Sempione ha avuto, come saprete, un'esistenza piuttosto tribolata. Iniziato nel 1807 su un progetto di Luigi Cagnola con l'intento di celebrare i trionfi napoleonici, era stato concepito, in un certo senso, come il gemello dell'Arco di Trionfo dell'Etoile, a Parigi, con cui si favoleggiava fosse perfettamente allineato, quasi a congiungere in un asse ideale le due capitali di colui che, oltre a Imperatore dei Francesi, era anche Re d'Italia. Comunque, i lavori in entrambi i cantieri erano giunti soltanto a metà quando nel 1815 il dedicatario fu costretto a prendere d'urgenza la via di Sant'Elena. Quello milanese fu riaperto solo nel 1826, previa la sostituzione delle raffigurazioni allegoriche già collocate in sito, per interessamento precipuo di Francesco d'Asburgo Lorena, Imperatore d'Austria. Comunque, visto che i nuovi padroni, allora, di particolari trionfi da vantare non ne avevano, il monumento fu dedicato, con un piccolo colpo di genio, alla pace europea del 1815. Durò poco, naturalmente, perché si trattava della pace del Congresso di Vienna e della Santa Alleanza, per cui quando gli austriaci, nel 1860, tolsero il disturbo, tutte le iscrizioni relative furono accuratamente rimosse, ma il nome rimase e l'arco anche, un po' isolato, in quella che allora era la periferia nord di Milano, al centro di una piazza che nessun progetto sarebbe mai riuscito a coordinare con il centro della città, all'inizio di un viale alberato che nemmeno con tutta la buona volontà del mondo si sarebbe potuto accostare agli Champs-Élysées, ma in una posizione, tutto sommato, abbastanza dignitosa. I guai cominciarono negli ultimi decenni del XX secolo, quando attorno al nobile artefatto si scatenò la voluttà distruttiva che caratterizza per così larga parte il ceto dirigente della nostra città. Per prima cosa pedonalizzarono la piazza, facendone un'insensata distesa di lastroni di pietra sconnessi, un'area priva della benché minima funzione urbana, visto che i concerti che ogni tanto vi si tennero e la spiaggia artificiale che in un periodo di particolare demenza vi fu istallata si sarebbero potuti collocare assai più logicamente nel verde del parco, qualche centinaio di metri più a sud. Poi vi fu installato tutto un arredo urbano (panchine, lampioni e affini) di stampo rigorosamente postmoderno, che faceva ovviamente a pugni con la solennità neoclassica del monumento. Quindi ne deturparono il fastigio con una specie di cancellata, come a imprigionare la bellissima Sestiga della Pace di Abbondio Sangiorgio e le quattro Vittorie a cavallo di Giovanni Putti, e vi eressero accanto una specie di campanile in tubi Innocenti e politene, un matitone dalle incerte funzioni che giovava non poco, comunque, a scardinare la simmetria dell'insieme. Infine, negli ultimi mesi, l'intera struttura è stata rinchiusa in ponteggi ricoperti da teli di plastica grigi sui quali vengono affissi a rotazione dei giganteschi cartelloni pubblicitari, sempre illuminati a giorno. Il capolavoro del Cagnola, così, ha servito per tutta l'estate da supporto per le lodi di una marca di rhum e attualmente gli sono affidate le fortune di una compagnia aerea. Francesco I e Napoleone, che in vita non andarono mai particolarmente d'accordo, lo sarebbero oggi nel rivoltarsi nelle rispettive tombe, unendo in una sonora protesta bipartisan la cripta degli Invalides e quella dei Cappuccini.
    Mi dicono che, da un certo punto di vista, questa situazione è normale. Non sono pochi, in questa città, i monumenti riciclati in supporto della pubblicità. L'arco di Porta Romana, illustre fabbricato del tardo '500, è da tempo rinchiuso in una specie di scatolone nero sul quale, pure, fioriscono le megareclame: quella attualmente esposta è in elogio di una griffe d'alta moda. Quel che resta della mura spagnole, da Porta Romana, appunto, a Porta Ludovica, è nascosto da una serie di pannelli che inneggiano a tutta una varietà di prodotti. L'austera immagine di Cesare Correnti al Carrobbio è stata incappucciata dalla pubblicità di una marca di birra e non ricordo a quali oltraggi sia stato soggetto il monumento equestre di Garibaldi in piazza Cairoli. Lo stesso Duomo si sta liberando a fatica di certe incrostazioni blasfeme e si parla di imbragare e ricoprire di manifesti giganti anche la facciata filaretiana dell'ex Ospedale Maggiore, dove adesso ha sede l'Università degli Studi. Il motivo per cui si consentono simili obbrobri, ufficialmente, è sempre lo stesso: laìe tasse di concessione pubblicitaria servono a raggranellare i fondi per i necessari restauri delle opere in questione. Ma, a parte il fatto che una città seria dovrebbe riuscire a conservare i suoi monumenti con il proprio bilancio ordinario, sta di fatto che sotto quei ponteggi non c'è traccia alcuna di grandi lavori in corso e, in ogni caso, i tempi previsti sono talmente dilatati da far sorgere il sospetto che quelle sistemazioni finiranno per imporsi come definitive. Anche se i rapporti tra la Moratti e Albertini non sono mai stati eccellenti, la Giunta attuale sembra aver ereditato dalla precedente la vocazione imprescindibile a fare, prima di tutto, cassa.
    Permettetemi di ritornare per un momento all'altra capitale napoleonica. C'è un racconto di Ian Fleming, di quasi cinquant'anni fa, in cui si spiega come James Bond fosse deluso della Parigi del dopoguerra. La considerava una città che non soltanto aveva venduto il proprio corpo, cosa – osservava – che è stata fatta anche altrove, ma perché era il cuore, ormai, che mancava. Quella capitale aveva venduto la propria anima, cedendola alla feccia di tutto il mondo che a poco a poco la aveva invasa: lo si poteva leggere negli occhi degli abitanti, imbronciati, invidiosi, umiliati...
    Be', se vi guardate in giro troverete quella stessa gamma di espressioni negli sguardi di molti nostri concittadini. Se Milano ha mai avuto un'anima, l'ha data via da un bel pezzo. E diciamo pure un'anima per rispettare la sobria prosa del grande Fleming: oggi, e non soltanto in una spy story, si userebbero certo delle espressioni più crude. La nostra è una città in cui si fa mercimonio di qualsiasi cosa, compresa la propria storia e la propria dignità, e per fortuna che James Bond, almeno secondo Fleming, non vi è mai passato, perché chissà cosa ce ne avrebbe dette dietro.
    Ma riuscite a immaginarvelo,a Parigi, un cartellone pubblicitario sull'Arc de Triomphe?

    14.12.'08


    Nota

    Il passaggio in questione di Ian Fleming si trova nel racconto Paesaggio e morte (From a View to a Kill), in Solo per i tuoi occhi (For Your Eyes Only, 1960), tr. it. di Mariapaola Dettore, Garzanti, Milano 1965, pag. 10.