Quello di non cadere nelle provocazioni, compagni, ai tempi della mia giovinezza
militante era un invito comune. Si trattava di un’espressione, in
sé, abbastanza generica (perché, in fondo, “non cadere nelle provocazioni”
significa semplicemente “non fare quello che gli altri vogliono che tu
faccia”), ma nessuno aveva dubbi su cosa intendesse significare: l’esortazione
a non abbandonarsi, pur in presenza di fatti e personaggi che abbondantemente
li giustificavano, a gesti o parole che potessero dar adito a un’eventuale
accusa di violenza, intolleranza o irascibilità. L’idea era quella
che per quanto fosse da schiaffi la faccia da schiaffi che ti si parava
davanti, bisognava guardarsi dall’allungarle anche un solo buffetto, a
rischio di deteriorare gravemente la propria immagine.
Be’, c’è immagine e immagine e tutto dipende
da quale si preferisce esibire, ma va detto che, allora, quanti non avevano
scrupolo di fare la faccia feroce di provocazioni ne subivano straordinariamente
poche. Toccava sempre agli altri, ai miti cui ogni tanto saltavano
i nervi, ai tolleranti che a reggere certi figuri non sempre ce la facevano,
a chi affermava il valore del dialogo senza peraltro riuscire a dialogare
proprio con tutti. Ed è ovvio, a pensarci: il vero provocatore –
lasciatelo dire a me, che, sia pure sul piano intellettuale, per tale sono
stato spesso annoverato – non tende tanto a far risaltare le caratteristiche
di fondo dell’avversario, ma a mettere in evidenza le sue possibili contraddizioni.
E siccome di contraddizioni ne abbiamo tutti, più o meno, il suo
compito è sempre stato straordinariamente facile.
Tanto è vero che nelle provocazioni, compagni,
continuiamo a cadere con preoccupante regolarità. Nonostante la lunga
pratica, non ci siamo mitridatizzati abbastanza e riusciamo regolarmente
a farci del male.
Non mi riferisco, naturalmente, a quanto è
successo a Milano martedì scorso, ma piuttosto alle polemiche del mercoledì.
Polemiche futili e, soprattutto, confuse. Perché poteva essere
giusto, secondo me, deplorare il gesto di chi ha dato alle fiamme una bandiera
israeliana, visto che bruciando una bandiera, in simmetria speculare con
chi della bandiera si ammanta, si finisce per offendere, accanto a chi
merita di essere offeso, persone e valori cui spetta, invece, rispetto,
ma tutto quel cancan per i fischi alla Moratti, compagni, come ce lo siamo
potuti permettere? I fischi, come sa qualsiasi frequentatore di stadi
e loggioni, non sono una manifestazione di violenza e neanche, dio scampi,
di intolleranza. Toccano agli arbitri in malafede, ai tenori che
non riescono a prendere l’acuto, agli attori che si pavoneggiano senza
aver alcuna ragione per farlo. Esprimono una legittima disapprovazione,
per di più su un piano affatto simbolico, e chi fa politica, specie in
ruoli esecutivi, sa che può sempre essere disapprovato. Nello specifico,
poi, sa il cielo se non fosse il caso di censurare una candidata che si
presentava in piazza, quel giorno, con il vecchio padre ex partigiano,
quando era notoriamente in procinto di apparentare la propria lista con
quelle dei neofascisti. La politica ha le sue esigenze, ma tra di
esse c’è anche quella di un minimo di coerenza. La festa del venticinque
aprile celebra la liberazione dal fascismo e per parteciparvi bisogna rispondere
a certe condizioni di base, tra cui quella di non allearsi con certa gente.
A cadere in contraddizione, in questo caso, è stata solo lei e i
cittadini, fischiandola, glielo hanno fatto cortesemente notare. Guai
se non avessero provveduto in merito.
In questo contesto, ovviamente, la vera provocazione
è stata quella di chi, approfittando di quel banale episodio, si è stracciato
le vesti, ha caricato le tinte e ha rovesciato su tutti gli antifascisti
presenti le più incredibili accuse. Accuse che non sarebbe stato
difficile rispedire al mittente, se non fosse scattato il riflesso pavloviano
di chi, per un motivo o per l’altro, non si sente mai legittimato abbastanza
dall’avversario. Quali danni, in tal modo, la sinistra sia riuscita
ad autoinfliggersi lo verificheremo domani, in occasione del primo maggio,
visto che, per una volta di più, siamo riusciti a fare appunto quello che
gli altri volevano che facessimo. Tanti auguri a tutti.
30.04.’06