Provocazioni

La caccia | Trasmessa il: 11/28/1999



Personalmente – lo sapete – non sono particolarmente esperto di teologia morale e sacramentale.   E se da un lato me ne dispiaccio, perché non c’è campo del sapere che non meriti di essere approfondito, da un altro me ne rallegro, soprattutto di questi giorni.  Sono giorni, questi, in cui nei panni di un teologo proprio non vorrei essere.  Pensate all’imbarazzo in cui devono trovarsi quei poveracci, costretti, per la prima volta nella storia della loro disciplina, a fare i conti con il diritto di sciopero.   Una materia più ostica e più lontana dai loro interessi, probabilmente, non se la sarebbero mai potuta immaginare.
        Eppure, come si dice, non ci sono santi.  La settimana testé trascorsa ha fatto registrare il primo caso di sciopero delle chiese di tutta l’era volgare.  E non uno sciopero da niente, promosso da qualche frangia lunatica, di quelle che sempre allignano ai margini di qualsiasi istituzione.  Lo hanno indetto le massime autorità cristiane di Terrasanta: prelati, cioè, che operando proprio in quei luoghi, dovrebbero rivestire posizioni di specialissima responsabilità.  E un evento del genere non può non avere delle conseguenze teologicamente rilevanti.  Io non sono un esperto, lo ripeto, ma un po’ di catechismo l’ho masticato, ai miei tempi, e ricordo benissimo che in certe circostanze la frequentazione delle chiese è obbligatoria, sotto pena delle più gravi sanzioni spirituali.  Sì, so che ci sono delle esimenti, ma sono sicuro che con lo sciopero non hanno nulla a che fare.  In fondo lo sciopero delle ferrovie non esonera i pendolari dall’obbligo di presentarsi al lavoro né quello delle banche proroga automaticamente la scadenza dei versamenti dovuti al fisco.  Per cui pensate, per fare il più banale degli esempi, a cosa potrebbe succedere a un credente di quelle parti, il più pio e morigerato che riusciate a immaginare, costretto a presentarsi davanti a San Pietro il giorno dopo quella scadenza di lotta.  “Mi spiace, figliolo” si sentirebbe probabilmente dire, “ma ieri non sei stato a messa.  Quindi…”  “Ma c’era lo sciopero!” ribatterebbe, un po’ ansioso, l’aspirante beato.  “Non sappiamo nulla di scioperi, quassù” replicherebbe severo il santo, scuotendo il capo, e il poveraccio, nonostante tutta la sua pietà e le sue virtù, rovinerebbe in quello che il padre Dante definiva eufemisticamente il basso loco.
        Naturalmente mi potreste sempre rispondere che il Padre Eterno, per definizione, è sempre più ragionevole dei suoi rappresentanti terreni.  Ma appunto questo è il problema.   Io, francamente, non oso nemmeno immaginare cosa potrebbe pensare il Padre Eterno dei motivi per cui le autorità ecclesiastiche di Gerusalemme e dintorni hanno proclamato lo sciopero delle loro chiese.  Lo hanno fatto, a quanto ho letto, per rintuzzare la provocazione del governo israeliano che ha permesso (o permetterà, non ho capito bene) la costruzione di una moschea proprio di fianco alla Basilica dell’Annunciazione di Nazareth.  E dove sta la provocazione, di grazia?   Di provocazione si sarebbe potuto parlare se accanto a quella chiesa fosse stato progettata, che so, una discoteca, o un luogo di peccato, o magari un centro di diffusione dell’ateismo.  Ma una moschea?  Viviamo in piena fase ecumenica, i massimi capi religiosi del mondo si sono più volte incontrati per lodare insieme il comune Fattore, le crociate sono un ricordo, anzi, uno sbaglio di cui persino il Papa ci ha esortato a pentirci, in Palestina (e quindi anche a Nazareth) la maggioranza della popolazione è musulmana e che male può esserci nel voler costruire un altro luogo di preghiera che venga incontro ai bisogni spirituali di quei credenti?  Dal punto di vista architettonico, la Basilica dell’Annunciazione, per venerabile che sia. non vanta pregi tali da escludere che un altro edificio le sorga accanto.  Quindi, perché non una moschea?  Oltretutto, la storia dell’Annunciazione è narrata anche nel Corano (nella Sûra della famiglia di ‘Imran, versetti da 37 a 43) e nulla quindi dovrebbe essere più comprensibile del desiderio di un musulmano di pregare sul luogo in cui, secondo una tradizione che accomuna le due fedi, l’angelo del Signore recò a una stupefatta fanciulla di Nazareth quel fatidico annuncio.
        Macché.  I vescovi, a Roma e a Gerusalemme, hanno detto che era una provocazione, che proprio alla vigilia del Giubileo la sola idea di veder sorgere una moschea in quel luogo proprio non la potevano sopportare e siccome, tanto a Gerusalemme quanto a Roma, godono, come dire, di un certo potere sono riusciti a creare il caso.  Adesso, anche se  il povero Arafat, con tutte le gatte da pelare che si ritrova per conto suo, e il re dell’Arabia saudita, custode dei luoghi santi dell’Islam, stanno tentando una mediazione, tutti i musulmani di Palestina, moderati o integralisti, sono debitamente incazzati con i cristiani, i rapporti tra le due comunità sono al livello più basso che si possa immaginare e il governo israeliano, che occupa equanimamente le terre dei cristiani e quelle dei musulmani, può compiacersi di aver saputo applicare un’altra volta la vecchia tattica del dividere per comandare.
        Tutto questo, lo ammetterete, fa nascere qualche dubbio sulla volontà ecumenica di quelle alte gerarchie.   E visto che una provocazione indubbiamente c’è stata, spinge a chiedersi, ancora una volta, chi abbia provocato chi.

28.11.’99