Personalmente – lo sapete – non sono
particolarmente esperto di teologia morale e sacramentale. E se
da un lato me ne dispiaccio, perché non c’è campo del sapere che non meriti
di essere approfondito, da un altro me ne rallegro, soprattutto di questi
giorni. Sono giorni, questi, in cui nei panni di un teologo proprio
non vorrei essere. Pensate all’imbarazzo in cui devono trovarsi
quei poveracci, costretti, per la prima volta nella storia della loro disciplina,
a fare i conti con il diritto di sciopero. Una materia più ostica
e più lontana dai loro interessi, probabilmente, non se la sarebbero mai
potuta immaginare.
Eppure,
come si dice, non ci sono santi. La settimana testé trascorsa ha
fatto registrare il primo caso di sciopero delle chiese di tutta l’era
volgare. E non uno sciopero da niente, promosso da qualche frangia
lunatica, di quelle che sempre allignano ai margini di qualsiasi istituzione.
Lo hanno indetto le massime autorità cristiane di Terrasanta: prelati,
cioè, che operando proprio in quei luoghi, dovrebbero rivestire posizioni
di specialissima responsabilità. E un evento del genere non può non
avere delle conseguenze teologicamente rilevanti. Io non sono un
esperto, lo ripeto, ma un po’ di catechismo l’ho masticato, ai miei tempi,
e ricordo benissimo che in certe circostanze la frequentazione delle chiese
è obbligatoria, sotto pena delle più gravi sanzioni spirituali. Sì,
so che ci sono delle esimenti, ma sono sicuro che con lo sciopero non hanno
nulla a che fare. In fondo lo sciopero delle ferrovie non esonera
i pendolari dall’obbligo di presentarsi al lavoro né quello delle banche
proroga automaticamente la scadenza dei versamenti dovuti al fisco. Per
cui pensate, per fare il più banale degli esempi, a cosa potrebbe succedere
a un credente di quelle parti, il più pio e morigerato che riusciate a
immaginare, costretto a presentarsi davanti a San Pietro il giorno dopo
quella scadenza di lotta. “Mi spiace, figliolo” si sentirebbe probabilmente
dire, “ma ieri non sei stato a messa. Quindi…” “Ma c’era
lo sciopero!” ribatterebbe, un po’ ansioso, l’aspirante beato. “Non
sappiamo nulla di scioperi, quassù” replicherebbe severo il santo, scuotendo
il capo, e il poveraccio, nonostante tutta la sua pietà e le sue virtù,
rovinerebbe in quello che il padre Dante definiva eufemisticamente il basso
loco.
Naturalmente
mi potreste sempre rispondere che il Padre Eterno, per definizione, è sempre
più ragionevole dei suoi rappresentanti terreni. Ma appunto questo
è il problema. Io, francamente, non oso nemmeno immaginare cosa
potrebbe pensare il Padre Eterno dei motivi per cui le autorità ecclesiastiche
di Gerusalemme e dintorni hanno proclamato lo sciopero delle loro chiese.
Lo hanno fatto, a quanto ho letto, per rintuzzare la provocazione
del governo israeliano che ha permesso (o permetterà, non ho capito bene)
la costruzione di una moschea proprio di fianco alla Basilica dell’Annunciazione
di Nazareth. E dove sta la provocazione, di grazia? Di provocazione
si sarebbe potuto parlare se accanto a quella chiesa fosse stato progettata,
che so, una discoteca, o un luogo di peccato, o magari un centro di diffusione
dell’ateismo. Ma una moschea? Viviamo in piena fase ecumenica,
i massimi capi religiosi del mondo si sono più volte incontrati per lodare
insieme il comune Fattore, le crociate sono un ricordo, anzi, uno sbaglio
di cui persino il Papa ci ha esortato a pentirci, in Palestina (e quindi
anche a Nazareth) la maggioranza della popolazione è musulmana e che male
può esserci nel voler costruire un altro luogo di preghiera che venga incontro
ai bisogni spirituali di quei credenti? Dal punto di vista architettonico,
la Basilica dell’Annunciazione, per venerabile che sia. non vanta pregi
tali da escludere che un altro edificio le sorga accanto. Quindi,
perché non una moschea? Oltretutto, la storia dell’Annunciazione
è narrata anche nel Corano (nella Sûra della famiglia di ‘Imran, versetti
da 37 a 43) e nulla quindi dovrebbe essere più comprensibile del desiderio
di un musulmano di pregare sul luogo in cui, secondo una tradizione che
accomuna le due fedi, l’angelo del Signore recò a una stupefatta fanciulla
di Nazareth quel fatidico annuncio.
Macché.
I vescovi, a Roma e a Gerusalemme, hanno detto che era una provocazione,
che proprio alla vigilia del Giubileo la sola idea di veder sorgere una
moschea in quel luogo proprio non la potevano sopportare e siccome, tanto
a Gerusalemme quanto a Roma, godono, come dire, di un certo potere sono
riusciti a creare il caso. Adesso, anche se il povero Arafat,
con tutte le gatte da pelare che si ritrova per conto suo, e il re dell’Arabia
saudita, custode dei luoghi santi dell’Islam, stanno tentando una mediazione,
tutti i musulmani di Palestina, moderati o integralisti, sono debitamente
incazzati con i cristiani, i rapporti tra le due comunità sono al livello
più basso che si possa immaginare e il governo israeliano, che occupa equanimamente
le terre dei cristiani e quelle dei musulmani, può compiacersi di aver
saputo applicare un’altra volta la vecchia tattica del dividere per comandare.
Tutto
questo, lo ammetterete, fa nascere qualche dubbio sulla volontà ecumenica
di quelle alte gerarchie. E visto che una provocazione indubbiamente
c’è stata, spinge a chiedersi, ancora una volta, chi abbia provocato chi.
28.11.’99