Non vi sarà sfuggito, spero, che lunedì
il “Corriere della sera”, nel suo piccolo, si è sforzato di emulare il
leggendario numero del “Manifesto” in cui, lo scorso tre novembre, si
annunciava a tutta pagina la vittoria di Kerry alle presidenziali americane.
L’evento giornalistico da cui si partiva era forse di minore portata
geopolitica, riferendosi alle “primarie” dell’Ulivo allargato in Puglia,
ma ciascuno deve accontentarsi di quello che c’è, e i redattori dell’eminente
quotidiano milanese hanno fatto del loro meglio, riferendo su quattro colonne
più foto a pagina 6, che, ancorché il candidato di Rifondazione avesse
raccolto molti consensi – il titolo, anzi, era dedicato alla “Sorpresa
Vendola” – la vittoria era andata, come previsto, al candidato della
Margherita. E proprio come i loro antesignani del “Manifesto”,
non si sono limitati alla notizia, ma si sono applicati con zelo al commento,
insistendo soprattutto sulla soddisfazione generale che un simile esito
aveva prodotto. Contento Boccia per essere stato preferito dagli
elettori, contento Vendola per avere ampiamente superato la percentuale
prevista, contentissimi i leader della coalizione, compreso Arturo Parisi,
che di solito non gliene va bene una, per il clima di concordia che il
nuovo, miracoloso strumento delle primarie aveva propiziato tra le loro
spesso indocili fila.
Be’,
come si è visto, non era vero niente. Boccia ha perso, Vendola ha
vinto e l’inversione dell’ordine dei fattori ha cambiato radicalmente
il prodotto. È da martedì che a sinistra tutti litigano con tutti,
non tanto su Vendola, al quale hanno garantito all’unanimità tutto l’appoggio
del caso (e ci sarebbe mancato altro), quanto sulla logica e l’utilità
di quell’istituto. Per quanto posso averne capito io, estraneo qual
sono da un pezzo alle minutiae della politica, i partiti maggiori
della coalizione si sono dichiarati favorevoli alle primarie che più non
si può, ma solo a patto di poterne definire l’esito a priori. Tanto
è vero che, dal loro punto di vista, le primarie ideali sono risultate
essere quelle a cui si presenta un solo candidato e se per caso ce n’è
un altro costui ha il dovere democratico di ritirarsi. E ammetterete
anche voi che dal punto di vista della democrazia interna un’ipotesi del
genere, per quanto gradita possa risultare alle segreterie di quei partiti,
dà adito a qualche sommessa perplessità.
Naturalmente,
la situazione è più complicata. Le primarie, si sa, sono state inventate
negli Stati Uniti d’America, dove non esistono dei veri e propri partiti
organizzati come in Europa, proprio per ovviare a questa mancanza, per
offrire un terreno su cui si possano mettere a confronto i diversi aspiranti
alla candidatura. Le procedure variano da stato a stato, ma il principio
di fondo è quello che chi vince vince e chi perde sparisce, almeno fino
alle prossime elezioni (in cui, peraltro, il ripescaggio di eventuali trombati
alle primarie precedenti è un evento tanto raro da essere eccezionale).
In Italia, dove nessun politico ha mai preso in considerazione l’ipotesi
del ritiro a vita privata, per quanti calci nei denti potesse aver preso
dagli elettori o dalla concorrenza, un modello del genere non ha senso
e infatti le primarie, come è già successo ai referendum e ad altre istituzioni
di democrazia diretta, sono state interpretate, diciamo, in modo creativo.
Così, Prodi le ha volute per mettere la sua investitura al sicuro
dalle insidie di quegli apparati di cui ha tutti i motivi di diffidare,
Bertinotti vi ci si è aggregato perché, nella sua situazione, un secondo
posto gli può fare persino più comodo di un primo, gli altri le hanno subite
perché come si fa a dire di no, ma nessuno, né Prodi né Bertinotti né gli
altri, ha mai pensato di mettervi in gioco la propria personale sopravvivenza
politica. Il che, in fondo, è abbastanza logico: politicamente il
nostro paese è il paradiso dei revenants, anche se a volte li si definisce
esponenti della società civile o della tradizione riformista lombarda.
E
allora perché ha fatto tanto chiasso la vittoria di Vendola, che tutti
assicurano essere una degna persona, ma che, con i suoi trent’anni di
politica ai vertici sul groppone, non rappresenta esattamente l’esempio
dell’uomo nuovo, del militante estraneo alle burocrazie in quanto incarnazione
del genuino spirito popolare? Ha fatto chiasso perché, come dimostra
il (modesto) infortunio dei colleghi del “Corriere”, ha contraddetto
tutte le previsioni, incluse, probabilmente, le sue. La classe dirigente
della sinistra ha interiorizzato a tal punto la teoria politica classica,
quella per cui per vincere bisogna spostarsi al centro, scegliendo candidati
e programmi tranquillizzanti e lasciando agli eccentrici, più o meno, il
ruolo di Rigoletto alla corte del duca di Mantova (che serve anche lui,
naturalmente, ma deve stare al suo posto) che non riesce neanche a concepire
l’idea che il suo elettorato possa avere, in merito, qualche idea differente.
È altamente probabile che quei quarantamila cittadini pugliesi abbiano
approfittato della prima occasione che gli si è offerta per ricordarglielo.
Il che, lo ammetterete, pone un problema di rappresentatività che,
in vista del calendario elettorale che ci aspetta, dovrebbe essere considerato
davvero primario.
23.01.’05