Privilegi di genere

La caccia | Trasmessa il: 11/28/1999



Non vorrei sembrarvi il solito bastian contrario, ma, francamente, non riesco a condividere l’angoscia che ha invaso i media da quando il Presidente del Consiglio, irritato da una vignetta del disegnatore Forattini, lo ha denunciato per diffamazione e calunnia, chiedendo un’ingente cifra a rimborso dei danni subiti.  Per una volta, sia pure con riluttanza, mi sento dalla parte del Presidente.  E non per motivi di simpatia e antipatia.  Forattini, non ho difficoltà ad ammetterlo, mi è antipaticissimo, come mi sono antipatici tutti gli opportunisti che negli anni ’70 attaccavano da sinistra il PCI di Berlinguer perché così andava il mondo e alla fine degli anni ’90 attaccano da destra i DS di Veltroni e D’Alema, che – lo ammetterete – è un po’ come sparare alla Croce Rossa.   Ma, forse, in tutti questi anni, gli ascoltatori avranno compreso che neanche per l’on. D’Alema stravedo.   E non saprei proprio perché dovrebbe interessarmi uno scontro tra tali campioni, se qualcuno non ne avesse fatto, incautamente, la pietra di paragone della libertà di satira nel nostro paese.
Perché il problema non sta nel fatto che Forattini, in pratica, abbia accusato D’Alema di aver censurato gli elenchi del dossier Mitrokhin e che questi neghi di averlo fatto e si senta, quindi, calunniato.  È ovvio che chi accusa qualcuno di qualcosa si assuma tutte le responsabilità relative, comprese quelle penali.   Il problema, se mai, sta nella pretesa di esonerare da quelle responsabilità chi esprime l’accusa in forma di satira.  Partendo dal principio, ragionevolissimo, per cui la satira dev’essere libera, se no che satira è, si arriva alla conclusione, svolta, tra gli altri, dall’ottimo Gad Lerner sulla “Repubblica” di venerdì, che D’Alema, certamente, non ha censurato alcunché, ma che Forattini ha fatto bene lo stesso a pubblicare la sua vignetta.  Una conclusione che non può che convenire a chi, dalemiano a oltranza, scrive comunque sullo stesso giornale per cui Forattini disegna, ma che può lasciare perplessi quanti non si trovano nella stessa situazione.  Capirete: estendendo il principio se ne potrebbero ricavare dei corollari strani.  Si potrebbe sostenere, per esempio, che se io, allo scopo di stroncare la carriera in Radio Popolare del nostro Cristiano Valli, scrivessi da qualche parte non solo che è un infiltrato al soldo di Radio Maria, ma che è uso, nella vita privata, prendere a calci le vecchiette e molestare i bambini, costui avrebbe tutto il diritto, oltre che di querelarmi, di prendermi a sberle, ma se esprimessi gli stessi concetti in una o più vignette satiriche potrei fargli marameo, sicuro dell’impunità.  Ammetterete che in tutto questo c’è qualcosa che non funziona.
Fatto sta che il concetto di satira e quello di verità (per impreciso e relativo che sia) non sono così completamente estranei l’uno all’altro.  La satira, anzi, è stata inventata proprio allo scopo di dire la verità (o, almeno, quello che il satirico sosteneva fosse tale).  I poeti della commedia attica antica, cui Orazio, come ricorderete, fa risalire il genere, siquis erat dignus describi quod malus ac fur / quod moechus foret aut sicarius aut alioqui  / famosus multa cum libertate notabant , “se uno meritava di essere attaccato perché furfante, ladro, donnaiolo o per altri versi infame, lo bollavano con molta libertà” (Satire, IV, 3-5).   Certo, lo facevano in un certo modo indiretto, per poter dire la loro verità senza subire le conseguenze che a chi dice la verità talvolta, in questo mondo imperfetto, possono capitare.  La satira, in un certo senso, è un genere spurio: cela la verità dietro uno schermo, più o meno trasparente, di non verità.  Ad Aristofane, che lo accusava di essere guerrafondaio e autoritario, Cleone non poteva far causa, perché quelle accuse, ostensibilmente, non erano rivolte a lui, ma a un certo Paflagone che gli assomigliava come una goccia d’acqua.  Ma tutti sapevano che Cleone, in effetti, era guerrafondaio e autoritario e su questo, in ultima analisi, si è sempre fondata la multa libertas degli autori satirici.   La libertà che la satira si è guadagnata nei secoli dipende, in ultima analisi, da quel tanto di verità che ha saputo incorporare.  E se chi fa satira della verità decide di non preoccuparsi, non può invocare nessun particolare privilegio di genere.  I privilegi di genere nascondono sempre una contraddizione che non si vuole risolvere.  Non so se ricordate i tempi in cui si perseguitavano gli scritti e le immagini “contrari alla pubblica morale”:  si perseguitavano, beninteso, a meno che non si decidesse di riconoscergli un non meglio precisato “valore artistico”.  Oggi non si usa più, ma non perché l’arte si sia diffusa a macchia d’olio.  Il fatto è che abbiamo eliminato alcune contraddizioni (non tutte) relative alla nostra morale sessuale.
E guardate che non intendo sostenere a spada tratta che D’Alema non abbia censurato gli elenchi del dossier Mitrokhin.  Giuro che non lo so.  Sono anche d’accordo sul fatto che i leader politici dovrebbero difendere la propria onorabilità con altri mezzi che non le denunce penali e le richieste di risarcimento.  Ma ritengo che chi muove un’accusa deve avere, come minimo, il coraggio civile di confermarla se richiesto.  Non può limitarsi a dire “E a me che me frega, io faccio satira”.
Poi, naturalmente, ciascuno difende se stesso, i propri amici e il mestiere che fa.  Nulla da eccepire, naturalmente.  Ma ho sempre avuto l’impressione che limitandosi a difendere la propria libertà, personale o di gruppo, e non quella di tutti, non si faccia poi molta strada.

20.11.’99