Previsioni

La caccia | Trasmessa il: 04/25/1999



È già passata una settimana e il ricordo della spassoso spettacolo dei principali leader politici del paese intenti a discutere per tre ore in diretta televisiva su dei risultati referendari “virtuali”, destinati a non essere confermati dallo spoglio dei voti, sta inesorabilmente impallidendo nella nostra memoria.  Peccato, perché, come il giorno dopo hanno riconosciuto, con imprevedibile unanimità, tutti i commentatori, è stato uno spettacolo molto divertente.  E istruttivo, naturalmente, perché certi comportamenti la  dicono sempre lunga: pensate alla prontezza con cui Fini, quell’ingrato, ha cercato di azzannare alle terga Berlusconi, cui pure deve tanto, approfittando del vantaggio che gli dava il fatto che per quel risultato lo sdoganatore dei neofascisti non si fosse troppo speso, o alla burbanza con cui il senatore Di Pietro alludeva ai concittadini che, sul ”suo” referendum, non erano andati a votare.  Sembrava proprio dispiaciuto di non poterli arrestare tutti.  Per non dire della malcelata soddisfazione di Cossutta, che in teoria era  per il no, ma che non aveva evidentemente motivo di dolersi per la prevista cancellazione dalla scena parlamentare di Bertinotti e che, comunque, da qualsiasi quota proporzionale non poteva (e non può) sperare che percentuali troppo irrisorie per significare qualcosa.   E delle perplessità di Veltroni, che evidentemente cominciava a chiedersi come fare a tenere insieme una maggioranza così palesemente a pezzi e, fedele ai suoi interessi di fondo, chiedeva al conduttore se, per intanto, non si potesse smetterla con tutte quelle chiacchiere e guardarsi un buon telefim.  Eccetera eccetera.
        Ma forse non era il caso di divertirsi troppo.  In fondo, quello spettacolo era la testimonianza più eloquente del livello cui è giunta la nostra classe politica.  Erano lì, i leader dei principali partiti, figure carismatiche o vecchie volpi della politica, fa lo stesso, a misurarsi con quelle che, in tutta evidenza, erano solo delle proiezioni, delle estrapolazioni statistiche, e non riuscivano – evidentemente – a rendersi conto della natura dei dati su cui discutevano.  Aveva un bel dire quel disgraziato dell’Abacus che la previsione del 52% dei votanti era solo provvisoria, basata su un campione ancora incompleto, e che quella del 50,8 era sì definitiva, ma rientrava nei margini dello scostamento statistico, per cui non significava altro che chiunque avesse prevalso lo avrebbe fatto con un margine minimo.  Era ovvio che tutti quei leader. che pure vivono di sondaggi, erano troppo ignoranti per avere la minima idea di cosa sia, in buona sostanza, un margine di scostamento statistico.  “Occhio” diceva il meschino, che capiva benissimo che alla fine il capro espiatorio avrebbe finito per farlo lui, “guardate che la ‘forchetta’ è dell’uno per cento e che con una ‘forchetta’ dell’uno per cento una maggioranza dello zero otto non garantisce niente”.  “Sì, sì” rispondevano loro, distratti, e ricominciavano a discutere della Presidenza della Repubblica o di che altro, sulla base di quelli che ritenevano i nuovi, ormai acquisiti, rapporti di potere.  Era chiaro che i nuovi rapporti di potere reciproco erano l’unica cosa che gli interessasse.  Il risultato del voto, dal loro punto di vista, era stato acquisito e metabolizzato da tempo; il referendum, in sé, non era che una formalità.  E se Veltroni, che è stato Ministro dei Beni Culturali, e quindi ha letto molto La settimana enigmistica, poteva sentirsi turbato dal ricordo della celebre serie di vignette sulle “ultime parole famose”, non si sentiva per questo esonerato dal diritto di spiegarci che il raggiungimento del quorum e il trionfo dei sì erano un’ottima cosa perché così si sarebbe fatto subito il doppio turno (lo stesso argomento, per chi ha un minimo di memoria, sostenuto dal povero Occhetto dopo il trionfo, vero, del ’93).
        Eppure, a ripensarci, l’ipotesi di una prevalenza del non voto non era poi tanto illogica.  Qualcuno, ricorderete, ci aveva sperato.  E non tanto perché c’è la guerra o perché i giornali cattivi non hanno fatto la propaganda dovuta all’invito ad andare a votare.  Il fatto è che, di fronte a un quesito “tecnico” lungo e complicato (quarantanove righe in caratteri molto piccoli), destinato, se accolto, ad avere un effetto politico tutt’altro che sicuro e univoco, un quesito che, in sostanza, si riduceva a una discutibile questione di principio (“il maggioritario è migliore del proporzionale”) e, in pratica, equivaleva a una richiesta di delega in bianco (“poi la faremo noi la legge giusta”), l’ipotesi di restarsene a casa poteva suonare piuttosto allettante.  Era, a pensarci bene, una pura questione di buon senso.  Ma sul buonsenso dei cittadini i nostri leader non sono evidentemente disposti a scommettere.
Uno degli effetti collaterali dell’ignoranza, si sa, è la supponenza, la fiducia di potersela cavare sempre e comunque.  Ed è proprio per supponenza, se ci pensiamo, che la stragrande maggioranza della classe politica si è cacciata con tanto entusiasmo nell’avventura del referendum, senza minimamente prevedere l’ipotesi di non farcela.  Con il risultato che adesso sono (o forse siamo) tutti nei guai fino al collo.  Perché è ovvio che il 50,4 % di non votanti è solo un aggregato composito, come non può non esserlo qualsiasi aggregato di negazioni, e non rappresenta certo un trionfo del proporzionalismo.  Ma è anche vero che i cultori del maggioritario hanno preso una botta tale da impedirgli di fare, nell’immediato futuro, granché.  E le riforme?  Be, le riforme le faremo un’altra volta.  Non c’è che dire, hanno fatto proprio un bel lavoro.
25.04.’99