Ci informa Francesco Merlo su “Repubblica”
di mercoledì scorso che tale John Sutherland, professore di letteratura
inglese all’Università di Londra, ha sfidato i suoi studenti a ridurre
l’Ulisse di Joyce a 160 battute, che è la capacità massima di un
sms, e che costoro, invece di pensare all’opportunità di cambiare docente,
alla sfida si sono appassionati, tanto che ne è nato “un avventuroso gioco
alla moda” che oggi fa furore su Internet, in appositi siti attraverso
i quali una quantità di brave persone si sforza di far rientrare in quella
precisa misura Conrad e I promessi sposi, Moby Dick
e Dante, o quali altri testi possa offrire la tradizione narrativa
mondiale.
La notizia,
in sé, non sembra tale da meritare la prima pagina, che pure le è stata
attribuita. Giochi di questo genere, a prescindere da Internet e
dalla capacità degli sms, se ne sono sempre fatti: ne testimonia, tra gli
altri, Umberto Eco, che nella sue rubriche si è diffuso spesso sul piacere
che taluni gruppi intellettuali provano nel ridurre la trama delle Ultime
lettere di Jacopo Ortis a uno scorrettissimo “Lei non gliela dà e
lui si ammazza” o quella di Casablanca a un salace “Due amici
riescono a liberarsi di una donna molesta”. È un esercizio, tutto
sommato, innocuo e in certi casi non completamente futile, nel senso che
lo sforzo di brevità può condurre – se tutto va bene – a dare risalto
a quelle strutture di fondo del testo che l’effusione narrativa, talvolta,
tende a celare. Volendo (e senza esagerare) gli si potrebbe riconoscere
persino una certa valenza critica, perché di una narrazione dalla quale
non sia possibile estrapolare in nessun modo un riassunto sarà sempre opportuno
diffidare. E in ogni caso, della diffusione di un gioco che presuppone
la conoscenza di un certo numero di pilastri della letteratura mondiale
e invita a lavorarci sopra non dovrebbe lamentarsi nessuno cui la cultura
letteraria stia un poco a cuore.
Macché.
L’articolista è preoccupatissimo. Per lui il fenomeno significa
che “il pensiero narrante, l’affabulazione è stata consegnata ai digitantes
… che scrivono ‘xché’ e non ‘perché’, ‘nn’ invece di ‘non’ …
‘pm’ per ‘pomeriggio’ … ‘cmq’ per ‘comunque’” con il risultato
che “la poesia cosmica e intimistica di Leopardi” diventa “una sequela
di suoni consonantici, un’implosione fonica :’Elnfrgr mdlc in qst mr’”.
L’idea che presiede a queste deformazioni, a suo avviso, “è che le vocali
siano il grasso della comunicazione” e che “in una visione anoressica
del mondo, anche le belle frasi, come le belle ragazze, dovrebbero perdere
l’adipe a favore del pensiero palestrato”. Quei fonemi, infatti,
sarebbero tutte espressioni del dominio del “pensiero corto”, che ha
ormai sostituito quello debole nell’andazzo culturale corrente, per cui
“è come se bisognasse vergognarsi di essere pensatori, di tenere il pensiero
come si detiene un’arma, una spada, una scimitarra, una durlindana che
sarebbe meglio intanto accorciare e poi magari far sparire”, perché “nella
filosofia del pensiero corto, pensare è … ritardare il rapporto con le
cose e dunque chi pensa non vive, chi articola il pensiero disarticola
la vita.”
Siamo appena
all’inizio, ma forse non è il caso di seguire più a lungo l’autore in
questo suo personale delirio. Io, vi confesso, non saprei dirvi se
la prospettiva che incombe sul mondo sia quella di un pensiero del tutto
disarticolato, né, d’altronde, nella mancanza di precisi riferimenti,
ho capito a chi si rivolgesse la polemica (e questo tipo di articoli, si
sa, si scrivono sempre contro qualcuno). Immagino che per
“pensiero corto” si intenda un modo di ragionare apodittico, che procede
per affermazioni autogiustificantisi e rifugge dalle strutture logiche
complicate, cioè un non pensiero che, nella concezione dell’intellettuale
italiano medio, è sempre quello degli altri e quando gli intellettuali
cominciano a rivolgersi l’un l’altro accuse di analfabetismo il saggio,
notoriamente, si leva di torno. Ma è curioso, lo ammetterete, un
modo di procedere che desume la “brevità” del pensiero dalla brevità
delle parole che si impiegano per renderlo pubblico e misura questa brevità
dal numero delle lettere con cui le si scrive, che significa passare senza
se e senza ma dal campo della logica a quello dell’ortografia.
Omettere le vocali nella scrittura è pratica largamente in uso tra i parlanti
una quantità di lingue (tutte quelle semitiche, per esempio, o quelle che,
pur di altra origine, utilizzano comunque l’alfabeto arabo) e anche se
non è prevista dall’ortografia italiana corrente è comunque omogenea al
principio per cui, scrivendo, non si cerca mai di indicare tutte le opposizioni
fonetiche di una parola, ma si confida nella capacità di integrazione di
un interlocutore dotato della stessa cultura di base. Così, scrivendo
in italiano non si notano tutti gli accenti, né si distinguono le e
e le o aperte e chiuse, o la s e la z sorde e sonore,
ma questo non crea particolari difficoltà di comprensione.
Il fatto è che anche nello scrivere,
come in qualsiasi altra attività, vale un certo criterio di economia, per
cui l’eccessivo accumulo dei particolari rende il prodotto meno perspicuo,
e questo criterio, naturalmente, evolverà a seconda delle necessità e delle
disponibilità del materiale scrittorio. Se per un messaggio ho a
disposizione solo 160 caratteri, be’, una certa selezione dovrò ben farla
e l’unico criterio di liceità, alla fin fine, dipenderà dal fatto che
i destinatari capiscano o meno quello che intendevo comunicargli.
Ma le parole, vivaddio, restano sempre le stesse comunque le si scriva
e identico resterà il loro valore semantico. Il rapporto tra pensiero
e linguaggio è di tipo dinamico, non referenziale, e ignora questo tipo
di problemi. Il “peso” di un’affermazione non ha niente a che
fare con quello del supporto su cui la si scrive (per cui una cazzata incisa
su un masso di granito, o stampata su un quotidiano ad alta tiratura, resta
sempre una cazzata, mentre un’affermazione geniale scarabocchiata su un
foglietto qualsiasi non perde la sua validità) e l’articolazione del pensiero
non dipende (ripeto, non dipende) dalla lunghezza materiale delle
parole.
Sembra facile,
no? Ma la cultura italiana, fedele a una tradizione che, chissà
perché, continua a chiamare umanistica, crede nelle parole e nei paroloni,
nella frase diffusa ed effusa, nel ragionamento che non ha fretta di giungere
alla conclusione, anche perché non è detto che una conclusione ci sia.
Vede in ogni sforzo di concisione un atto di lesa maestà e in ogni
tentativo di adeguamento ortografico un alto tradimento ai danni del Petrarca,
alle cui consuetudini in merito ci siamo legati da sei secoli . Crede,
più in generale, nell’utilità di allungare quanto più possibile il brodo
del discorso, nel tirare almeno per un quarto d’ora quello che si potrebbe
benissimo sbrigare in cinque minuti, perché altrimenti i suoi praticanti,
che su esercizi di questa fatta hanno basato la propria educazione, non
avrebbero nulla da fare e finirebbero inesorabilmente per morire di fame.
È per questo, probabilmente, e non per altro, che un noto critico
letterario sente il bisogno di impiegare due colonne di stampa per spiegarci
che per scrivere l’Ulisse di Joyce servono più di 160 battute.
Una informazione preziosa di cui lo ringraziamo di cuore, ma, francamente,
lo sapevamo già.