Perché non siamo razzisti

La caccia | Trasmessa il: 10/12/2008


    C'è una curiosa disimmetria, l'avrete notato, tra i commenti suscitati dal caso della signora somala fermata e umiliata all'aeroporto di Fiumicino. Mentre sono stati in parecchi a far notare che la disgraziata non era finita negli uffici della polizia per caso o capriccio, ma in quanto sospettata prima di accompagnare dei minori senza averne titolo (che equivale, in soldoni, a un'accusa di rapimento) e poi di tentato traffico di droga, due ipotesi mica da niente, pochissimi si sono lasciati turbare dal fatto che entrambe le accuse, alla fine, siano risultate affatto infondate. I minori erano dei regolarissimi nipotini e di droga non ne è stata trovata una briciola. Difficile sfuggire all'impressione che la vigilanza aeroportuale abbia dato prova di una burbanzosità che le circostanze non richiedevano e i fatti non hanno giustificato. Cose che capitano, naturalmente, visto che la polizia non è immune dalle cantonate, specie se agisce in base a non meglio precisate “segnalazioni”, ma di solito, in questi casi, si chiede scusa e si cerca di chiuderla lì. Lei, invece, l'hanno denunciata per oltraggio e resistenza e, quando ha protestato, anche per calunnia. Il ministero degli interni, esprimendo il proposito di costituirsi parte civile, le ha chiesto addirittura i danni.
    Un caso di razzismo, forse, trattandosi di persona che, pur provvista di cittadinanza italiana, era ostensibilmente di diversa origine etnica? Sembrerebbe un'ipotesi ragionevole, ma l'hanno esclusa tutti. Per il presidente del Senato, che è persona colta, “il razzismo non è nel nostro Dna, dove c'è invece l'accoglienza e la solidarietà”. Per il ministro degli interni, che ha difeso l'operato della polizia anche alla Camera, l'Italia “è tutto il contrario di un paese razzista” e ha, anzi, “i più alti livelli di integrazione”. Entrambi hanno ammesso che possono darsi degli “episodi” isolati che “vanno e saranno colpiti”, ma il caso della signora Sheikh Said (che tutti, sui giornali, chiamano disinvoltamente “Amina”, che sarebbe come ridimensionare il presidente del Senato in un imprecisato “Renato” e il ministro degli interni in un “Roberto” qualsiasi) evidentemente non rientra nel novero: è piuttosto una di quelle “montature” che, pure, “vanno colpite”. D'altronde, come ha detto Maurizio, (intendendo per tale l'on. Gasparri) “tra le dichiarazioni di una donna somala e una dei poliziotti” non si può che scegliere quella dei poliziotti. Ora, a parte il fatto che le dichiarazioni delle due non differiscono tanto sulla dinamica dei fatti quanto sulla loro valutazione, il concetto, evidentemente, è quello per cui le pretese della polizia sono indiscutibili e se gli agenti decidono, per segnalazione ricevuta, che bisogna spogliarti nuda e sottoporti alla più intima delle perquisizioni, il tuo dovere di cittadina è quello di toglierti i vestiti e assumere senza fiatare la posizione richiesta. Se poi di droga addosso non ne hai, vuol dire soltanto che per stavolta te la sei cavata. Si tratterebbe, in questa ottica, di un caso di “normale” durezza poliziesca in cui il razzismo non c'entra, come non c'entra in altri episodi recenti, tipo quello del giovane Emmanuel Bonsu Foster, fermato e picchiato a Parma dai locali vigili urbani, o quello di Diop Mussa, cittadino senegalese, fermato, identificato e ammanettato dalla polizia urbana di Milano davanti alla scuola cui stava accompagnando il figlioletto, senza che, stando alle cronache, ce ne fosse alcuna necessità.
    Bah. Che l'Italia non sia un paese razzista è cosa che sento ripetere fin da quando ero ragazzo e, per la verità, mi è sempre sembrato un'affermazione assai singolare. Allora, naturalmente, non c'erano in giro stranieri dalla pelle scura su cui esercitare le virtù dell'accoglienza, ma al loro posto c'erano gli immigrati meridionali, che a Milano chiamavamo “terroni”, che non è esattamente un epiteto affettuoso, e di cui si diceva che non si lavassero, girassero sempre armati di coltello e non avessero voglia di lavorare, anche se appunto per lavorare erano venuti su a Nord. A Torino, invece, erano detti “napoli”, che non è un semplice connotativo di origine, e si rideva di cuore alla barzelletta del tipo che entra in un bar con due alligatori al guinzaglio e chiede se in quel locale servano i napoli e avuta conferma che sì, lì i napoli li servono, ordina “un caffè per me e due napoli per gli alligatori”. Eppure il Sud del mondo, per quanto lontano, non era del tutto assente dalle connotazioni valoriali correnti, almeno a giudicare da certi usi linguistici: così, per esempio, i lavoratori che si sottraevano alla solidarietà di classe erano detti “crumiri”, con un termine derogatorio che noi, oggi, associamo soprattutto a un tipo di biscotti, ma in realtà era il nome di una popolazione del Maghreb di cui le cronache avevano avuto occasione di occuparsi proprio all'epoca delle prime lotte operaie; delle persone non troppo raffinate di modi si diceva, in Lombardia e zone limitrofe, che fossero dei “baluba” (o, in forma più colta, degli “zulù”) e, più in generale, nella stessa area l'epiteto “negher” non serviva certo a esprimere stima e rispetto. Risalivano, probabilmente, queste e altre espressioni alla nostra breve (e ingloriosa) storia coloniale, anche se di essa tutti facevano a gara nel dimenticarsi, relegando in qualche nota a piè di pagina le repressioni in Cirenaica negli anni '20, con l'episodio infame dell'impiccagione di Omar Mukhtar, o quelle in Etiopia un decennio dopo, o cassando del tutto la memoria di altre vicende disdicevoli, come i massacri in Somalia ai tempi del Mad Mullah e simili. Le avventure coloniali, del resto, erano interpretate secondo lo stereotipo pascoliano della “Grande Proletaria” che reclamava il suo posto nel mondo, Tripoli nell'immaginario collettivo non era un oggetto di conquista e di sfruttamento, ma un “bel suol d'amore” e le “faccette nere” dell'altopiano, anche a decolonizzazione avvenuta, rimpiangevano ancora i camerati liberatori.
    Credo che oggi, almeno dal punto di vista storiografico, la situazione sia cambiata. Ma il passato conferma quello che il presente, ahimè, testimonia, che, cioè, noi italiani non siamo razzisti finché non ci vien data occasione per esserlo, ma quando ne abbiamo materia non ci tiriamo indietro. Che è, in fondo, l'atteggiamento prevalente in tutta la cultura europea, tanto sul versante cattolico quanto su quello protestante, e non si capisce perché proprio noi dovremmo esserne esenti. L'Europa e l'America sono razziste soprattutto per cattiva coscienza, perché sullo sfruttamento e sulla prevaricazione hanno creato la propria prosperità e hanno paura che gli venga presentato il conto relativo e chi, come noi, a quella prosperità è arrivato da poco è ancora più riluttanti a dividerla con chi, pur avendo contribuito a costituirla, è visibilmente diverso dai loro cittadini tipo. Onde tutti i tentativi di ghettizzazione morale e materiale e la costruzione di un sistema di sospetto preventivo, di una specie di devalorizzazione a priori che tali tentativi motivi e giustifichi. Il meccanismo è sempre quello e funziona per i negri come per i terroni.
    Insomma, noi italiani non siamo razzisti solo perché dichiariamo (convinti) di non esserlo. Perché di fronte a ogni manifestazione di sospetto, discriminazione o paura ci affrettiamo a esibire una motivazione altra, che non è, poi, un'impresa troppo difficile, visto che infinite sono le causali che si possono attribuire a ogni gesto. Per cui possiamo permetterci di dire, come credo abbia affermato Roberto, che sì, se il razzismo ci fosse sarebbe necessario combatterlo, ma per fortuna non c'è, per cui andiamo pure avanti così. La prospettiva è un po' agghiacciante, ma è questo che passa il convento e di questo, a quanto sembra, ci dobbiamo accontentare.
    12.10.'08