Perché non c'era

La caccia | Trasmessa il: 12/14/2008


    Abbiamo finalmente saputo, dopo qualche giorno di suspence, dov'era il presidente Berlusconi la sera di domenica scorsa, quando, contrariamente a quanto annunciato in precedenza, non si è fatto vedere alla prima della Scala. Non era stato trattenuto da importanti impegni di stato né, checché possano avere supposto i maligni, da qualche incontro clandestino. Era semplicemente a casa sua, ad aspettare il rientro della moglie, che alla prima, invece, era andata. Anzi, ha dovuto aspettare più del previsto, meschino, perché non aveva pensato che Veronica decidesse di rimanere anche alla cena di gala. Di fatto, si è ritrovato solo soletto nella sua villa . “Erano andati via tutti” ha confidato a Bruno Vespa, “anche il cane”. Ora, visto che le cronache mondane e musicali non hanno riferito della presenza di quadrupedi nella sala del Piermarini, può sempre restare in qualcuno la curiosità di sapere dove fosse finito nell'occasione il nobile animale, ma non dubitiamo che in una delle prossime puntate di “Porta a porta” anche questo mistero sarà debitamente chiarito.
    Nessun mistero, invece, sui motivi che hanno spinto l'Uomo d Arcore a spedire la moglie a teatro da sola. La sua assenza, dopo tutto, non è una novità. In quasi otto anni che è stato al governo, se non vado errato, ha messo piede alla prima soltanto una volta o due. È abbastanza noto come la forma di spettacolo che più gli è congeniale siano le partite di calcio e, quanto alla musica, gli bastano e avanzano le canzoni di Apicella e l'inno di Forza Italia. L'opera proprio non gli piace e il Don Carlo, con i suoi quattro lunghissimi atti, è uno dei mattoni più temibili dell'intero repertorio lirico. D'altronde, per governare il paese non è obbligatorio essere degli intellettuali, né presenziare alla prima è un dovere istituzionale: lo si può considerare, al massimo, un obbligo di cortesia verso la città e le sue tradizioni, ma nell'immagine che il presidente del consiglio ha di se stesso una certa mancanza di cortesia e un poco di indifferenza alla tradizione hanno indubbiamente la loro parte.
    E poi, scusate, proprio il Don Carlo dovevano andare a proporgli? Il Don Carlo non è un'opera per governanti e difatti per trovarne qualcuno che illustrasse la serata con la sua presenza hanno dovuto andare a cercarselo fino in Albania o nell'Africa equatoriale. È tratto da Schiller, che, agli occhi di uno che considera marxista leninista Veltroni, non può che apparire come un pericolosissimo radicale, e ha per argomento il contrasto tra ragion di stato e libertà personali, complicato dalla contraddizione tra il potere civile e quello religioso: tutta roba scottante, che non avrebbe potuto che mettere in imbarazzo uno statista, chiamiamolo così, che quando il re, nel terzo atto, si lamenta perché “dunque il trono piegar / dovrà sempre all'altare” non potrebbe che commentare “Be', certamente sì”, che non è esattamente quanto Verdi o Schiller intendevano. È vero che alla Scala a quel che succede (e si dice) sul palcoscenico non presta generalmente attenzione nessuno e poi si sa che la versione italiana di quel melodramma rispetto all'originale è stata edulcorata parecchio – così, non sarà un caso se il celebre Tais-toi, prêtre! con cui Filippo II cerca di tacitare il Grande Inquisitore è diventato nella versione corrente un debole Non più, frate! – ma, insomma, ci vuole tutto il servilismo di certa critica per pretendere che Verdi, portando la sua opera in patria, ne abbia ristrutturato l'ideologia in senso chiesastico in seguito a una sincera crisi religiosa. Certo, alla rappresentazione di domenica sera erano presenti altri politici di primo piano, come il pio Formigoni, che al trionfo del Grande Inquisitore si sarà divertito parecchio, e Ignazio La Russa, che non si può pretendere più interessato di tanto al tema delle libertà personali, ma forse a un ex laico come il Berlusca, per quanto possa aver trafficato con il Vaticano in piatti di lenticchie, la situazione sarebbe potuta sembrare, appunto, un po' imbarazzante.
    Insomma, mi si permetta di offrire un consiglio disinteressato al sovrintendente e alle altre autorità del sommo tempio della lirica universale. In futuro, se vogliono che le loro serate di gala siano onorate dalla presenza del capo del governo – e supponendo che in tale ruolo gli dei ci conservino a lungo Berlusconi – stiano più attenti alla scelta dell'opera da produrre. Evitino il Don Carlo, naturalmente, rifuggano dal Fidelio, si tengano alla larga dal Ballo in maschera e dalle Nozze di Figaro e ci vadano piano anche con il Rigoletto, che, con i suoi accenni a principi lussuriosi e a buffoni vendicativi, può sempre venire frainteso. Se proprio vogliono buttarla in politica, si limitino strettamente ai Lombardi alla prima crociata, che non sarà un capolavoro, ma a Bossi e ai suoi farà sempre piacere. Oppure – meglio – cerchino nel repertorio qualcosa di assolutamente innocuo, qualche favoletta graziosa e innocente che, mi credano, ce ne sono davvero tante. D'altronde quest'anno hanno già messo in calendario la Vedova allegra: sono, mi sembra, sulla buona strada.

    14.12.'08