Ontologia dell’atto osceno

La caccia | Trasmessa il: 04/16/2000





Fare l’amore in macchina, si sa, è un’attività difficile e pericolosa, non tanto per l’inevitabile mal di schiena, di cui molti, specie se ancora nel fiore degli anni, possono non curarsi, quanto perché è sempre possibile l’intervento di qualche zelante custode della legge e della morale, con conseguente denuncia all’autorità giudiziaria e successiva esemplare condanna per atti osceni in luogo pubblico.   E si sa che è inutile, in questi casi, eccepire che nelle effusioni che si scambia una coppia non c’è mai niente di osceno, o che i luoghi in cui si parcheggia l’automobile per l’evenienza tutto sono, di solito, tranne che pubblici: la formula di rito è quella e non ci si scappa.  Lo ha confermato, a scanso di equivoci, la Suprema Corte, che respingendo, come si apprende da una delle “notizie in breve” del nuovo “Manifesto” formato lenzuolo (6 aprile 2000), il ricorso di una “lucciola” brasiliana, sorpresa a “consumare” in automobile, “in un luogo appartato, ma non lontano dalle abitazioni”, ha stabilito che “non serve la presenza di un pubblico curioso per commettere un atto osceno ed essere così condannati”.   Basta operare in un luogo che “pur non essendo né pubblico né aperto al pubblico”, per sua “natura, conformazione e destinazione” sia comunque tale da “consentire ad un numero indeterminato di persone la visibilità di ciò che in esso avviene”.  E tale “è una macchina in sosta lungo la strada, benché la via sia deserta, appartata e, per giunta, sia già scesa la notte”.

      Dal punto di vista della precisione giornalistica, la notizia, va detto, non è un gran che.  Non indica né quando né dove sia accaduto il fatto e rende impossibile, quindi, stabilire quale sia la Suprema Corte che l’ha sanzionato.  Dal fatto che la “lucciola” in questione sia definita come “brasiliana” si potrebbe dedurre che il tutto è avvenuto in Brasile, ma siccome non c’è chi ignori come quel grande e poverissimo paese abbia, per sua disgrazia, una certa tendenza all’esportazione di manodopera di quel tipo, neanche di questo possiamo sentirci sicuri.  Può darsi benissimo che quell’importante pronuncia giurisprudenziale sia stata emessa molto più vicino a noi: di fatto, anche alla nostra Corte di Cassazione si è soliti attribuire, non ho mai capito se sul serio o per celia, l’aggettivo “suprema”.

      Il problema, d’altronde, è irrilevante.  La precisione giornalistica è una gran bella cosa, ma certe volte se ne può fare benissimo a meno.  Che una corte, una corte qualsiasi, suprema o no, decida che dal punto di vista di un possibile reato un luogo possa essere pubblico anche se pubblico non è, nel senso che per natura, conformazione o destinazione non ci passa nessuno, tranne – s’intende – i diretti interessati, è una notizia di grande valore filosofico.  Risolve, d’un colpo solo, annose questioni gnoseologiche e cognitive.   Ricorderete tutti, suppongo, il dibattito sull’albero che cade nella foresta: se nei pressi non c’è nessuno con le orecchie tese a captarne lo schianto, quella caduta fa o non fa rumore?  Non sono mancati i dotti che hanno identificato l’essere, anzi l’esse, in latino, che fa sempre più figura, con il percipi, con “l’essere percepito”, e credo sia stato George Berkeley, nel Trattato sui principi della conoscenza umana, a sostenere che “non è possibile che le cose possano avere una qualunque esistenza fuori dalle menti o dalle cose pensanti che le percepiscono”.  Certo, se poi gli chiedevano se, allora, quando uno usciva da una stanza il tavolo che vi era contenuto spariva di colpo, lui doveva rispondere che no, che continuava a esistere benissimo, perché a percepirlo c’era comunque la mente divina, ma visto che, oltre che il filosofo, di mestiere faceva il vescovo non poteva che rispondere in quel modo.

      E visto che di mestiere fanno i giudici, anche i componenti di quella maldefinita Suprema Corte non potevano, in fondo, che pronunciarsi come si sono pronunciati.  Probabilmente si saranno resi conto anche loro della contraddizione in cui si infilavano scrivendo, nero su bianco, che un luogo può essere considerato pubblico anche quando, in buona sostanza, pubblico non è per niente, ma che altro potevano fare, poveretti?   Se ci si mette a distinguere i reati virtuali da quelli, come dire, effettivi, non la si finisce più.  Quello che conta, dal punto di vista di una Suprema Corte, sono le prescrizioni del codice, i divieti che stabiliscono.  Un divieto, perdinci, è un divieto e non si può trasgredirlo impunemente.  Se due si mettono a fare l’amore in macchina (perché suppongo che in quell’auto, oltre alla “lucciola” il cui ricorso è stato respinto, ci sarà anche stato qualcun altro) sanno che, per quanto l’area di parcheggio sia buia, deserta, remota e scarsamente accessibile, qualcuno potrebbe sopraggiungere sempre: sanno, quindi, di poter commettere un reato.  E non si può mica lasciargliela passare liscia, no?   Non hanno dato né fastidio né scandalo ad alcuno, perché non c’era alcuno a cui dare scandalo o fastidio (tranne, s’intende, l’agente della Buoncostume che li ha beccati sul fatto, ma quello è un altro paio di maniche) ma un divieto l’hanno ben trasgredito, mannaggia.  E se ci mettessimo a discettare sulla ratio e sulla logica dei divieti, a voler decidere noi, indipendentemente dagli organismi preposti, quando li si viola e quando no, diventeremmo ipso facto dei pericolosi eversori di un ordine pubblico che appunto sul rispetto di quei divieti si basa.

      Ed anche questo, si sa, è severamente vietato.


16.04.’00