“Prima di Romeo & Giulietta” ci ricorda la locandina di un film di
prossima uscita, sullo sfondo dei volti di due attori bellocci, “c’erano
Tristano & Isotta”. In entrambi i casi i due nomi sono legati
da una “&” commerciale, che in italiano appare un po’ incongrua,
ma per una volta passiamoci su. Prima di Romeo e Giulietta, in effetti,
non c’erano solo Tristano e Isotta: c’erano anche Piramo e Tisbe, Ero
e Leandro e chissà quante altre coppie inappagate e infelici. Il
mito dei due innamorati cui una quantità di complicazioni (familiari, coniugali
o comunque di tipo sociale) impedisce di coronare, come si dice, la propria
passione è uno dei più diffusi nella nostra cultura. Lo hanno raccontato
in tanti e in tanti modi, da Ovidio a Museo, dai trovatori a Shakespeare,
che non c’è da stupirsi che ne sia stata approntata una nuova versione
su celluloide. E non è neanche il caso di turbarsi pensando agli
sforzi che autori e interpreti, in teoria, hanno dovuto compiere per mantenersi
all’altezza di tanto eccelsi modelli (l’autrice della colonna sonora,
per esempio, avrà pur avuto qualche problema a doversi misurare con Wagner),
perché queste tematiche trascendono, in un certo qual modo, le singole
realizzazioni artistiche e ogni opera si presenta per quello che
è, senza dover temere inopportuni confronti. È uno dei vantaggi di
cui si gode quando si decide di misurarsi direttamente con i Grandi Archetipi.
Gli archetipi, d’altra parte, funzionano solo
quando possono funzionare. Quello dei due innamorati divisi, per
esempio, ha senso soltanto in un contesto di repressione. Quella
che, in mancanza di un termine più appropriato, potremmo spingerci a definire
la sua “essenza” non consiste nel fatto che due giovani siano attratti
l’uno dall’altra, che sarebbe una situazione – ammettiamolo pure –
banale, ma nell’assunto per cui quell’amore, in sé, ad altro non può
portarli che non alla tomba. Gli ingegnosi accorgimenti cui i due
ricorreranno, di propria iniziativa o su suggerimento di malaccorti consiglieri,
per superare gli ostacoli che li dividono – il velo di Tisbe, la lucerna
di Ero, l’elisir di Tristano, la pozione di frate Lorenzo – si risolveranno
immancabilmente in trappole micidiali. Quel loro amore, in effetti,
rappresentava un anelito di libertà, si contrapponeva agli obblighi imposti
dalle istituzioni – le dinastie e le famiglie, essenzialmente, con i loro
sistemi di autorità e le loro necessità di riproduzione sociale – e le
istituzioni, in questi casi, vincono sempre. Tristano e Isotta, lo
sanno tutti, non potranno mai vivere insieme felici e contenti, perché
la cosa non sconvolgerebbe soltanto la corte del buon re Marco, ma
manderebbe a Patrasso l’intero sistema feudale. Non a caso gli unici
amanti divisi la cui storia può finir bene sono quelli che vivono una divisione
soltanto apparente: gli innamorati della commedia greca e del romanzo ellenistico,
che alla fine delle loro peripezie scoprono, di solito in seguito a un’agnizione,
di non essere quelli che pensavano di essere, perché lei non è affatto
un’etera, ma una fanciulla di ottima famiglia e lui non è il perdigiorno
che credevano tutti, ma il figlio di un ricco mercante, o addirittura del
re di Babilonia. Anche Nemorino, il protagonista di quella singolare
variante del mito di Tristano che è l’Elisir d’amore di Donizetti, sembra
non abbia nessuna probabilità di sposare l’amata Adina, che sfarfalleggia
con i sergenti e non lo guarda neanche di striscio, ma poi uno zio muore
e gli lascia un mucchio di soldi e quando l’ex villico è diventato il
più ricco fittavolo del paese state pur sicuri che la bella sdegnosa non
se lo lascia scappare. Il senso generale di tutte queste storie è
quello per cui sesso, amore e matrimonio non sono, per così dire, valori
primari, ma ipotesi realizzabili solo in seconda istanza, quando lo permettono
(o lo esigono) le regole invalse della società. Chi prova a fare
il furbo, si risveglia in una tomba con un cadavere accanto.
Questo, almeno, fino a qualche tempo fa. E
non tantissimo tempo: la mia generazione, se ricordo bene quel che ci succedeva
da giovani, è riuscita a vivere almeno le ultime manifestazioni di questo
tipo di atteggiamento. Ma adesso che, ufficialmente, quelle pastoie
sono state abolite, che nessuno in campo sentimentale e sessuale vieta
più niente a nessun altro, adesso che gli esponenti di quello che il mio
amico Accame chiama “il sistema delle stelle” ostentano in televisione
i propri illeciti amori e le mamme, negli spogliatoi delle palestre,
si raccontano l’una all’altra con orgoglio gli exploit erotici delle
figlie quattordicenni, adesso che di repressione, per carità, neanche si
parla e uno può dirsi d’accordo col Papa sui PACS anche se di mogli, personalmente,
ne ha due, che senso può avere raccontare un’ennesima volta la storia
di Tristano & Isotta? È una domanda, ve lo dico subito, cui
non so rispondere: il film, d’altronde, non è ancora uscito e non sono
neanche sicuro che quando uscirà lo andrò a vedere. Magari il pubblico
d’oggi vivrà quelle vicende come la testimonianza di un’epoca barbara
in cui una cosa tanto normale come andare a letto con chi si vuole era
severamente proibita. Qualcuno, chissà, potrà persino provare un
brivido di inconfessata nostalgia per i tempi in cui per un reciproco amore
negato si poteva così intensamente soffrire. O magari nessuno si
accorgerà di niente, perché di repressione, checché se ne dica, ce n’è
sempre in giro anche troppa e ci vuol altro che questo tipo di blando edonismo
diffuso per fare dell’amore un valore vincente. Ma questi, naturalmente,
sono discorsi da vecchi barbogi e piantiamola pure qui.
02.04.’06