Oh, a proposito. Sembra che alcune delle forze politiche, di maggioranza
e di opposizione, che più si sono mostrate riluttanti all’idea di “ripulire”
le liste elettorali, non abbiano agito perché spinte da inguaribile necrofilia,
ma in base a un sottile ragionamento politico. Il numero degli iscritti,
si sa, non sarà ininfluente sugli esiti della prossima consultazione referendaria.
Perché un referendum sia valido bisogna che voti una certa percentuale
di cittadini, e visto che meno aventi diritto ci sono, più bassa è quella
percentuale (è questo, in sostanza, il famoso quorum), quei tre o quattrocentomila
nomi in più o in meno potranno essere in qualche modo determinanti sul
risultato finale. Ciò spiega l’accanimento che in molti hanno dimostrato
e spiega anche perché un provvedimento in sé affatto normale, come l’adeguamento
anagrafico degli elenchi dei votanti, abbia assunto un carattere, diciamo,
un po’ ambiguo. Quando un governo interviene sulla composizione
del corpo elettorale in prossimità di una consultazione il cui risultato
da quella composizione dipende, per quanto buone siano le sue ragioni,
si sente sempre una certa puzza di bruciato.
Ora, nel merito del prossimo referendum, come
ben sapete, io non posso proprio entrare, almeno in questa sede: me lo
impedisce la legge sulla cosiddetta par condicio, una normativa tanto iniqua
quanto superflua, cui la direzione della nostra radio ha purtroppo deciso
di adeguarsi. In ogni caso, in tempi più liberali ve ne avevo parlato
quanto basta perché possiate immaginare come la penso. E sempre in
ogni caso, penso che siate d’accordo anche voi sul fatto che, in un paese
normale, i veri problema di fronte a un quesito referendario dovrebbero
essere soprattutto di merito. Le forze politiche dovrebbero dedicarsi
soprattutto al compito di spiegare ai loro elettori perché considerano
vantaggiosa, o meno, per la comunità l’abolizione di questa o di quest'altra
norma. Se del merito dei vari referendum oggi si parla tanto poco,
se le polemiche riguardano tutte degli aspetti formali, quali l’opportunità
di andare o non andare a votare, un motivo dovrà ben esserci. Io,
personalmente, ho il sospetto che molto dipenda dal fatto che i quesiti
che tra due domeniche chi andrà a votare troverà sulla scheda sono, per
la maggior parte, troppo complicati o specifici perché su di essi si possa
dibattere con profitto. Riguardano, in buona parte, delle problematiche
troppo specifiche, che richiedono un certo grado di competenza tecnica
di cui molti non si sentono affatto provvisti. Il problema delle
carriere dei magistrati, per dirne uno, o quello delle modalità di elezione
del loro Consiglio Superiore, pur essendo di indubbia importanza, non sono
esattamente al centro del dibattito popolare. Certo, c’è il quesito
sulla legge elettorale, ma l’avete visto? Per farlo entrare tutto
sulla scheda è stato necessario ricorrere a caratteri tipografici talmente
minuti da richiedere l’uso di potenti lenti d’ingrandimento. E
d’altronde il problema non è quello di abolire o meno la legge elettorale
vigente: tanto i sostenitori del sì quanto quelli del no, concordano sul
fatto che, quale che sia il risultato, il Parlamento dovrà rimetterci le
mani, per cui agli elettori si chiede solo di esprimere una generica preferenza
per il sistema proporzionale o per quello minoritario e può darsi benissimo
che l’idea di esprimere soltanto una generica preferenza a molti non vada.
Resta il quesito sulla reintegrazione obbligatoria dei licenziati
senza giusta causa (visto che di quello sul finanziamento dei partiti,
chissà come mai, non parla nessuno), ma a questo punto le probabilità che
anch’esso sia riassorbito, come si dice, nel contesto sono piuttosto alte.
Insomma, stiamo per andare a votare su una serie di problemi specifici
e complicati, orientarsi sui quali è tutt’altro che facile, e le forze
politiche hanno mostrato qualche segno di vita soltanto quando si è trattato
di depennare i defunti. Che gli dei li perdonino. E abbiano,
soprattutto, compassione di noi.
14.05.’00