Nomi parlanti e no

La caccia | Trasmessa il: 11/29/2010


    Nell'ultimo libro dell'Accame qui presente – si intitola Firma altrui e nome proprio, è pubblicato da Odradek e ve lo racomando caldamente – si affronta, tra l'altro, il problema dei rapporti, non sempre idilliaci, che molti hanno con il proprio nome. Può capitare – no? – che a qualcuno non piaccia l'appellativo che gli è stato attribuito dai genitori o da chi per loro, o perché lo considera ridicolo, o perché teme che, associato a qualche sua caratteristica, renda ridicolo lui, o perché lo condivide con cose e persone con cui preferirebbe non condividere alcunché o per qualche altro motivo. E si capisce che lui – l'Accame, dico – possa sentire il problema con particolare intensità. È portatore di uno dei non tantissimi “nomi parlanti” della nostra lingua, di quelli, cioè, il cui valore semantico è immediatamente percepibile a tutti gli italofoni, e quindi si trova in una situazione, come dire, un po' esposta. Tutti i nomi propri hanno un loro valore semantico, naturalmente , ma spesso questo valore è leggibile secondo un codice linguistico diverso da quello che usiamo di solito, un codice che non tutti sono tenuti a conoscere: le relative parole possono essere formate su forme latine che non si sono conservate nell'uso di oggi, o derivare dal greco, o dall'ebraico, o sviluppare radici germaniche e slave, o altro ancora. Certo, c'è abbondanza di dizionari e di altri strumenti di consultazione grazie ai quali chiunque può risalire agevolmente al “significato” di qualsiasi nome, proprio o altrui, ma la necessità di rivolgercisi rappresenta comunque una forma di protezione. Carlo, mi dicono, può voler dire “uomo libero”, ma il fatto che lo dica in antico germanico mi garantisce da qualsiasi commento malevolo sulla mia libertà. Ezio rimanda, forse, a una impegnativa etimologia greco-latina legata ai concetti di amicizia e di amore, ma per specularci sopra bisogna saperlo. Silvio significa, abbastanza evidentemente, “l'uomo dei boschi”, ma non ci pensa nessuno e al più noto dei Silvi presenti oggi su piazza tutto normalmente si addebita fuorché una natura silvestre. E nessuna Alessandra deve disperarsi (come faceva una mia allieva, ricordo, tanti anni fa) perché, stricto sensu, il suo nome indica “colei che tiene lontano l'uomo”, visto che la storia delle lingue ha confinato questa etimologia, di chiara origine militare – l'uomo in questione è chiaramente il nemico da respingere in battaglia – nelle tenebre dell'erudizione. Ma chi ha avuto in sorte di chiamarsi Felice, o Fortunato, o Benvenuto, per non dire di Gelsomino o Giacinto o simili, si trova scoperto ed esposto ai dardi del volgo maligno e si capisce che, a volte, sia tentato di lamentarsi. Né gli può giovare un granché la considerazione che gran parte di quei nomi ha un semplice valore augurale, perché gli auguri fanno piacere quando si realizzano, ma danno maledettamente fastidio quando si prende in considerazione l'eventualità opposta.
    Il nostro Felice osserva che l'imposizione di un nome ha sempre un valore ideologico. In effetti, sia che lo si scelga per perpetuare il ricordo di un familiare,o per mettere il neonominato sotto la protezione di un santo, o per accostarlo idealmente a qualche figura pubblica, sia che lo si chiami Francesco come il povero nonno, o Francesco come quello delle stimmate o Francesco come il compianto presidente Cossiga l'intenzione c'è, anche se non è sempre evidente. L'evidenza è maggiore se il nome è insolito o raro, in casi come quelli di Kevin, Vladimiro, Adolfo Benito o Comunardo, ma l'ideologia si annida un po' dappertutto e anche il semplice rifiuto di adottare il nome del nonno, nonostante le aspettative e le suppliche della parentela anziana, ne può essere considerato manifestazione. A me, quella di perpetuare il nome di chi ci ha preceduto sembra un'usanza gentile, ma capisco che qualcuno possa vederla come una intollerabile prevaricazione della sua libertà di scelta. E le consuetudini sociali, che un tempo privilegiavano il mio punto di vista, adesso avallano il loro.
    Di un altro aspetto della faccenda, però, conviene far conto. L'Ideologia non è mai innocua. La sua manifestazione avviene sempre sulla pelle di qualcuno. Così, nel nostro caso, il nome è sempre imposto, non dipende mai dalla scelta di chi lo porta. Basterebbe questo a giustificare una punta di risentimento, una minima volontà di ribellione. Io, per esempio, sono lieto di portare il nome di mio nonno, anche se non ho mai conosciuto, mi onoro di condividerlo con Carlo Marx, dalla cui opera ho imparato cose importanti, non mi dispiace che la sua etimologia rimandi all'idea di “uomo libero”, ma, ma, ma... Ma certe volte penso che se fosse stato per me ne avrei scelto un altro. Magari uno che non contenesse una combinazione di consonanti che mi è tanto difficile pronunciare.
    Mica facile, eh. Ci si può arrangiare con nomignoli e soprannomi, ma c'è il rischio di cadere dalla padella nella brace. E poi bisogna fare i conti con l'anagrafe, che, con i suoi registri, i suoi documenti, i suoi codici fiscali e le sue carte di identità, è sempre pronta a richiamarti all'ordine. Un'Adalgisa (ne conosco una) può tirare abbastanza bene nella vita familiare facendosi chiamare Gisella, ma viene sempre il momento in cui deve firmare un assegno o dichiarare che lei sottoscritta ha bisogno di questo o quest'altro e allora non si può sgarrare, pena la nullità dell'atto. Gli pseudonimi e i nomi d'arte non se li possono permettere tutti: bisogna essere attori, scrittori, artisti importanti per poterli sfoggiare senza far ridere i proverbiali polli. Soluzioni generali al problema non ne conosco, salvo quella escogitata dalla cultura araba classica, per cui i maschi adulti, alla nascita del primo figlio, potevano sostituire il proprio nome con il kunya, come a dire l'appellativo Abu, “padre di”, seguito dal genitivo del nome del nuovo nato. Lo stesso profeta Muhammad – Maometto, per noi – si faceva chiamare, quando lo voleva, Abu l'Qasim. Ma anche da quelle parti, ormai, c'è l'anagrafe e temo che l'usanza si sia perduta.
    Al proprio nome proprio, insomma, non si può sfuggire. A meno di essere molto, ma molto potenti. Non per niente una volta quello di scegliersi un appellativo diverso da quello assegnato alla nascita era un privilegio dei re, al momento di salire sul trono. Oggi non usa più, ma mi sembra che persino l'attuale principe del Galles abbia manifestato, una volta, l'intenzione di farsi chiamare, se mai fosse toccato a lui, non ricordo più se Giorgio o Edoardo. E, naturalmente, continuano ad assumere un nuovo nome i cardinali cui capita di essere eletti Papa. Nessuno ha mai spiegato esaurientemente la logica di questa prassi, che non è poi tanto ovvia come tutti la considerano, ma che sia un segno di potere mi sembra indubbio. Quello di dominare il proprio nome è un privilegio che tocca davvero a pochi.
    Temo che per l'amico Accame sia ormai un po' tardi per intraprendere la carriera ecclesiastica, salire al soglio pontificio e risolvere così il suo problema di onomastica, anche se con lui non si può mai dire. Può trarre qualche conforto, tuttavia, dal fatto che la storia della Chiesa ricorda ben cinque papi e due antipapi che hanno portato (e quindi, presumibilmente scelto) il suo nome. Chissà come li avranno chiamati i loro genitori.
29.11.'10