Quando, domenica scorsa, è stato reso noto che Alessandra
Mussolini era stata estromessa dalla contesa elettorale nel Lazio e sono
cominciate a girare le prime voci sulle responsabilità in merito del presidente
di quella regione, il “Corriere” ha pubblicato una vignetta piuttosto
azzeccata: l’immagine del celebre nonno della esclusa, in uniforme e stivali,
che, dalla sua nuvoletta ultraterrena guardava in basso e chiedeva, con
aria incazzosissima, “Chi è questo Storace?”. In effetti, per uno
come lui, che aveva ben saldo il senso della solidarietà familiare, l’idea
che un qualsiasi potentato locale – quello che all’epoca si sarebbe definito
un gerarca – si potesse permettere un simile sgarbo nei confronti di una
sua consanguinea, sarebbe apparsa perlomeno bizzarra. A meno, naturalmente,
che non ci fosse stata a giustificarla qualche solida ragione di stato
o di partito: il duce era, in sostanza, un politico puro e non ha mai permesso
in vita sua che le necessità della politica fossero soverchiate da considerazioni
di natura privata. Lo dimostra, tanto per fare un esempio, la sua gestione
di quel disgraziatissimo affare che fu il caso Ciano. Sapeva fin
troppo bene che la lotta per il potere non è un pranzo di gala e il fatto
che tra i suoi eredi potessero allignare agguati e imboscate reciproche
non lo avrebbe meravigliato più di tanto.
Quello che lo avrebbe
meravigliato davvero – suppongo – sarebbe stata l’idea che sua nipote
reagisse all’oltraggio facendo lo sciopero della fame. A Mussolini,
che amava tenersi informato sulle cose del mondo, Gandhi non era del tutto
ignoto, anzi, è probabile che ne apprezzasse la capacità di creare fastidi
all’impero britannico. Tuttavia, non si può certo dire che le tecniche
della nonviolenza facessero parte del patrimonio genetico suo e del regime.
Se c’è un elemento, anzi, che conferisce unità alle molteplici svolte
della sua carriera, consiste proprio nella esaltazione delle virtù marziali,
nel culto della forza, nella fiducia nell’uso delle armi: non per niente
aveva confidato, per arrivare al governo, più nell’applicazione intensiva
del manganello che nella costruzione del consenso e si trovò, negli ultimi
giorni, ad affidare le poche, residue speranze di sopravvivenza al raggio
della morte. No. Se c’è una cosa che con il fascismo ha decisamente
poco a che fare, un’antitesi – quasi – del modello antropologico e culturale
che quel sistema ideologico ebbe l’ambizione di incarnare, va identificato
nel pacifismo e nella pretesa di imporre le proprie ragioni senza nuocere
fisicamente agli avversari. Lo sciopero della fame, che di questa
pretesa rappresenta una delle applicazioni più radicali, è decisamente
incompatibile con l’orbace.
Ora, io non so se
l’Alessandra in questione sia (o si consideri) davvero fascista. Ho,
anzi, la mezza impressione che, se pur non le manca la grinta, non si tratti
del tipo di grinta caratteristico di quella trucida identità. Ma
è poco ma sicuro, ahimè, che la ragazza ha fatto carriera sfruttando il
suo cognome e che ha lasciato Alleanza Nazionale quando Fini si è permesso
di definire il fascismo una forma di “male assoluto”. Quanto al
tipo di compagnia cui si è aggregata dopo la rottura, be’, non farebbe
proprio pensare a un’improvvisa conversione a quei principi liberali che
al nonno sembravano, giusta la lezione di Giovanni Gentile, decisamente
fuori dalla storia.
Eppure guardatela.
Non ha fatto altro, in questi giorni, che parlare di democrazia e
di quanto sia deplorevole negare a qualcuno il giudizio dell’urna. E
non si è limitata ai comunicati stampa: non si è mossa per una settimana
dal suo camper, come una militante alternativa degli anni ‘70, e, finché
non è arrivata la sentenza del TAR, mangiare non ha mangiato di certo.
Certo, non era paragonabile a Gandhi, che digiunava a oltranza e
lo dimostrava con il suo aspetto emaciato: il suo era, come ormai usa,
un digiuno alla Pannella, temperato dall’attenta ponderazione di un certo
numero di cappuccini ben zuccherati e di bottiglioni di acqua minerale,
ma a questo, ormai, siamo arrivati e in un paese dove non ci si vergogna
di praticare lo sciopero della fame a rotazione (una pratica non molto
dissimile, dal punto di vista del singolo militante, dall’astinenza dal
cibo tra un pasto e l’altro) quell’impegno è sembrato a molti più convincente
delle battutacce degli ex sodali su quanto bene potesse farle un’energica
cura dimagrante.
È stata ed è, l’Alessandra,
in contraddizione con i propri principi? Sì, forse sì, ma che cosa
volete che importi? Su contraddizioni di questo genere si regge,
ormai, l’intero luna park mediatico della politica nazionale. La
nipote del duce che digiuna in difesa della democrazia fa da perfetto pendant
ai dirigenti della sinistra che si sdilinquiscono per il mercato. Non
esiste, a cercarlo, un leader che si senta in alcun modo impegnato dal
proprio ruolo o dalla tradizione ideologica cui dichiara di appartenere
(ove, per caso, ce ne sia una). Tutti dicono tutto e il contrario
di tutto, nella ricerca disperata dell’effetto immediato di fronte ai
microfoni e alle telecamere. L’Italia è fatta così: il paese in
cui si può passare, tra il plauso delle masse, da un importante ruolo direttivo
in FIAT alla direzione della “Unità”, da Lotta Continua al Movimento
per la Vita, dalla segreteria del Partito Radicale alla guida degli eredi
della Democrazia Cristiana. È l’eterna patria delle convergenze
parallele, la nazione dove il capo del governo in visita alla Guardia di
Finanza esorta i contribuenti a non pagare le tasse, in cui i cardinali
raccomandano di non andare a votare, i ministri azzannano i giudici, i
fautori della secessione e quelli dell’unità nazionale siedono insieme
al governo e si discetta sull’opportunità di organizzare le elezioni primarie
a patto che vi ci si presenti un candidato solo. La povera Mussolini
in materia è poco più che una dilettante e l’incoerenza di cui ha dato
prova, al confronto, è stata una incoerenza gentile, quasi patetica. Presto
o tardi, vedrete che la etichetteranno come un esempio vivente di dialettica
della storia in senso hegeliano e si libereranno definitivamente di lei,
facendone una specie di icona bipartisan della crisi delle ideologie.
Per fortuna che siamo
in fase di par condicio e mi è risparmiato l’obbligo di confidarvi il
mio parere su questa interessante eventualità.
20.03.’05