Nemesi al Blue Lobster
Si fanno degli strani incontri al Blue
Lobster. Ed è un peccato, perché il locale, in sé, non sarebbe male:
vecchiotto, tranquillo, lontano dalle zone più incasinate, ma non troppo
fuori mano, con un paio di baristi simpatici che se la cavano abbastanza
bene con il negroni e il martini e la Harp media alla spina a ottomila
lire. Anche i clienti abituali sono abbastanza potabili: niente ex
pariniani ingrigiti come al Jamaica, niente amici di Pinketts come al Trottoir
, niente ragazzotti vocianti e anarchici folli come alla Belle Aurore.
Al Blue Lobster si incontrano, grazie al cielo, delle persone normali,
sempre disposte a far quattro chiacchiere, se ti va, ma che non insistono
a romperti le palle quando hai voglia di startene per conto tuo, che è
poi la dote principale che a un frequentatore di bar si possa richiedere.
Un posto piacevole, insomma… se non fosse per quei tre.
Li
ho visti per la prima volta qualche mese fa, quando avevo, appena cominciato
a frequentare il posto. Stavo parlando del deplorevole stato della
città con un tizio che avevo conosciuto lì, uno che, apparentemente, veniva
tutti i pomeriggi, quando l’avevo visto fare una faccia strana.
“Oh,
cazzo!” aveva detto. “Adesso vengono qui, quelli?”
Io
davo di spalle alla porta e mi ero girato. In effetti, erano entrati
tre esemplari piuttosto inquietanti. Un individuo sulla cinquantina
massiccio, stempiato, con una fronte stranamente alta, che indossava un
vecchio impermeabile su una giacca di tweed e un paio di pantaloni di flanella
sformati; un tipo più giovane, con un ghigno che gli distorceva i lineamenti
e un grande ciuffo di capelli in disordine e un figuro occhialuto un poco
più alto, con una zazzeretta scomposta, un paio di baffetti e un accenno
di barba a punta, che portava una giacca di pelle nera su una camicia fantasia.
Si guardavano attorno con l’espressione di chi sta sempre in guardia.
“E
chi sono?” avevo chiesto al mio interlocutore.
“Tre
tipi che conosco. Non sapevo che venissero anche qui.”
“E
allora? Ti hanno fatto qualcosa di male?”
“No,
no. Niente di male, ma preferirei lo stesso che andassero in un altro
posto. Be’, ci vediamo: adesso devo andare.”
Era
strano, perché erano appena le sette e lui, fino alle otto di solito non
staccava. Oltretutto non aveva neanche finito il suo bianco fermo.
Ma era scivolato via con ostentata indifferenza e se n’era andato.
E da quel giorno non l’avevo più rivisto.
Avevo
guardato pensosamente i tre nuovi venuti, che intanto avevano ordinato
due cuba libre e un caffè e, senza sapere perché, mi ero sentito percorrere
da un brivido.
Nei
mesi successivi li avrei rivisti parecchie volte. Arrivavano un po’
sul tardi, entravano, scambiavano due parole con il barista di turno, ordinavano
qualcosa (il tipo stempiato prendeva sempre solo un caffè) e, se trovavano
qualcuno disposto a fare il quarto, si sedevano a un tavolino a giocare
a carte. Non facevano niente di speciale e si rivolgevano a tutti
in tono abbastanza cortese. Eppure, inesorabilmente, attorno a loro
tendeva a formarsi il vuoto.
“Chissà
perché, con loro non mi sento tranquillo” mi aveva confidato uno dei baristi
una sera che aveva bevuto un poco anche lui, dopo averli visti imboccare
l’uscita. “Sono dei buoni clienti, certo, lasciano giù parecchia
lira, ma preferirei che frequentassero un altro locale.”
“E perché?”
“Perché… perché… Probabilmente
sono tutte chiacchiere. Ma su Petit Fromage si raccontano delle cose…”
“Petit
chi?”
“Petit
Fromage. Formaggino. Il tipo con la fronte alta: ti ricordi
l’etichetta del Formaggino Mio, quando eravamo bambini?”
“Ah
sì. Il suo ritratto sputato. E che fa?”
“Appunto.
Per quel che si sa, non fa niente. Ma circolano lo stesso certe
voci…”
Poi
era ammutolito, come se all’improvviso si fosse reso conto di aver parlato
troppo e si era messo a strofinare il banco con energia. Non ero
riuscito a farmi spiegare che voci circolassero su Petit Fromage e i suoi
due amici. Avevo solo scoperto che erano generalmente noti
come il Pellicano (il tipo con il ciuffo) e Nat il Pittore (quello con
i baffetti). Tutti quelli che, in un modo o nell’altro, li conoscevano
non ne parlavano volentieri. Mi avevano detto soltanto che Nat doveva
il suo soprannome al fatto che, almeno in teoria, dipingeva, anche se nessuno
al Blue Lobster, in realtà, aveva mai visto un suo quadro. Da dove
gli altri due attingessero i biglietti da cinquantamila che facevano circolare
non sembrava saperlo nessuno. O forse tutti preferivano ignorarlo.
Anche
sul Pittore, d’altra parte, circolavano delle voci.
“È
quello che mi fa impressione di più” aveva confessato il solito barista
un paio di mesi dopo. “Sembra cordiale, allegro… più umano,
in un certo senso, degli altri due… ma è quello a cui bisogna stare
più attenti.”
“In
che senso?”
“Nel
senso che con lui è meglio non litigare. È vendicativo, testardo
e… insomma, meglio lasciarlo perdere. ”
Quei
tre, francamente, mi stavano incuriosendo.
Quel venerdì decisi che era venuto il
momento di fare qualcosa di concreto. Era inutile continuare a lambiccarsi
il cervello. In fondo, scoprire in quali traffici esattamente fossero
implicati quei figuri non avrebbe dovuto essere troppo difficile e una
volta che l‘avessi scoperto, be’, poco ma sicuro, avrei certamente trovato
il modo di ricavarne qualcosa per me. Dopo tutto, erano mesi che
frequentavo quel bar e non avevo ancora combinato niente.
I
tre compari erano appena arrivati, avevano fatto le loro ordinazioni e
si stavano guardando intorno cercando un volontario per la solita partitina.
Come al solito, gli altri avventori tendevano a scantonare. Fu
allora che mi decisi.
“Vi
serve un quarto?” chiesi all’improvviso.
Il
Pellicano mi guardò con aria sospettosa. Ma di disponibile, in giro,
non c’era proprio nessun altro.
“Sì,
ci serve un quarto” rispose, con un forte accento meridionale.
Mi
sedetti insieme a loro e cominciammo a giocare.
Ora, se c’è una cosa che odio di tutto
cuore è giocare a carte. A scopa, in particolare, e a scala quaranta
subito dopo. E quelli giocavano soltanto a scopa e a scala quaranta.
Ma avevo deciso che l’unico modo di scoprire qualcosa era quello
di starmene attaccato a loro come una decalcomania, e l’unico modo per
farlo era giocare a carte. Per cui giocavo a carte. Non era
piacevole, naturalmente, visto che tutti e tre parlavano poco, limitandosi
a qualche commento sul gioco e a qualche frase criptica di incerta decifrazione,
e visto che tanto i baristi quanto gli altri clienti, ormai, cominciavano
a tenersi alla larga anche da me. Ma, insomma, non si può avere tutto
nella vita.
Cominciavo
a credere che l’occasione non sarebbe arrivato mai (in effetti avevo scoperto
soltanto che anche il Pellicano aveva qualcosa a che fare con la pittura,
anche se di un genere diverso), quando, due settimane fa, Nat si lasciò
sfuggire finalmente qualcosa.
“Domani
arrivano le aragoste” buttò lì a un certo punto.
“Bene”
commentò Petit Fromage. “Passo a prenderle io con la macchina”.
Io
giocai il mio unico sette, sperando che i miei calcoli fossero esatti.
“Quali aragoste?” chiesi distrattamente. “State organizzando
un picnic?”
“Sono
di plastica” spiegò Nat. “Cento aragoste di plastica.”
“E
cosa ci fai con cento aragoste di plastica?”
“Le
dipingo di blu. Non siamo al Blue Lobster?”
Come
battuta mi sembrava particolarmente idiota, ma bastava per troncare il
discorso. Anche perché il Pellicano, che stava alla mia destra,
aveva il sette che, in teoria, non avrebbe dovuto avere e si era tirato
su il mio senza fiatare. Naturalmente Petit Fromage, con cui quella
volta facevo coppia, non aveva di che fare scopa.
Comunque
il discorso delle aragoste non era finito lì.
“Domani
dobbiamo andare dal serigrafo per le scatole” comunicò Nat ai suoi soci
un paio di giorni dopo.
“Che
scatole?” non potei fare a meno di chiedere.
“Le
scatole per le aragoste. Le dipingo di blu e le metto in una bella
scatola di cartone con un’etichetta serigrafata.”
“E
perché?”
“Be’,
per venderle” spiegò lui in un tono stranamente esitante.
“E
chi cavolo ti compera un’aragosta di plastica in una scatola di cartone
serigrafata?”
Era
strano, ma sembrava davvero un po’ imbarazzato. “Sono aragoste
blu” precisò. “Di gente disposta a comprarne… be’, in effetti
qualcuno si trova.”
“Chi
per esempio?”
“I
miei collezionisti.”
Sì,
i suoi collezionisti, figuriamoci. Probabilmente si accorse di aver
fatto un passo falso, perché cominciò subito a cercare di intortarmi, sostenendo
che quelle aragoste blu erano un’opera d’arte. La gente avrebbe
dovuto comperarle e appenderle al muro come se fossero quadri. “O
meglio” precisò “come se fossero delle lito. Sono dei multipli.”
Non
avevo mai sentito un tale ammasso di cazzate, ma feci finta di credergli
e mi concentrai sul gioco. Quella sera, più tardi, riflettei a fondo.
Non ero precisamente nato ieri, io, ed ero sicuro di avere individuato
l’inghippo. Altro che opere d’arte.
Il
problema, naturalmente, era quello di trovare il posto e il momento giusto.
Nel suo studio (perché avevo sentito dire che aveva uno studio dalle
parti di piazza Gramsci) non potevo certo autoinvitarmi. E lì al
Blue Lobster il Pittore non aveva motivo di portare i suoi prodotti.
Invece,
tre giorni dopo, scoprii che ce li avrebbe portati. “Domani vengono
il genovese e lo svizzero a vedere le bestie” comunicò agli amici in una
pausa del gioco. Come avevo sperato, ormai tutti e tre si erano talmente
abituati alla mia presenza che davanti a me parlavano come se fossero soli.
“Ci vediamo qui, verso le sette.”
Chi
fossero il genovese e lo svizzero, naturalmente, non lo sapevo, ma mi ripromisi
di scoprirlo. Trafficanti internazionali, probabilmente. Genova
è sempre stato un centro di scambi sospetti e quanto alla Svizzera, lo
sanno tutti che lì non fanno i quattrini soltanto con il cioccolato al
latte. Tanto meglio per me, comunque: sarebbero finiti in trappola
anche loro.
“Peccato
che domani ho da fare” dichiarai in tono indifferente. “Mi sarebbe
proprio piaciuto vedere quelle famose aragoste blu.”
L’indomani, in effetti, mi diedi parecchio
da fare. Feci una quantità di telefonate, parlai con le persone opportune,
mi accertai che tutti i particolari fossero programmati alla perfezione.
Poi, verso le cinque e mezzo, mi appostai fuori dal Blue Lobster,
in una posizione un po’ defilata, in modo di non farmi notare. Era
autunno, ormai, e cominciava a far buio.
Dopo
un’ora abbondante li vidi arrivare, tutti e tre insieme.
Aspettai
un’altra mezz’ora, finché un tipo con un bicchiere di birra in mano non
uscì sul marciapiede, bevve un sorso e rientrò nel bar.
Era il segnale.
Attraversai
la strada ed entrai anch’io. Sembrava tutto a posto. Nat,
Petit Fromage e il Pellicano erano seduti al solito tavolo, insieme a un
signore dall’aria florida e i capelli ondulati e a una specie di spennacchiotto,
magro e dai lineamenti pronunciati. Dovevano essere il genovese e
lo svizzero. O viceversa. Sul tavolo c’erano tre o quattro
scatole di cartone bianco, una delle quali era aperta. Lo spennacchiotto
aveva in mano qualcosa di blu. Qualcosa che somigliava moltissimo
a un’aragosta.
Notai
che agli altri tavoli erano seduti dei giovanotti ben piazzati, di un tipo
che di solito al Blue Lobster non si fa vedere.
Benissimo.
Tutto procedeva secondo i piani prestabiliti. Adesso toccava
a me. Presi dalla tasca del giaccone un fazzoletto a quadri rossi
e bianchi e me lo passai sulla fronte.
I
giovanotti scattarono in piedi estraendo la pistola e circondarono il tavolo
dei cinque cultori di crostacei.
Tirai
fuori la berta anch’io. “Fermi tutti” gridai, scandendo bene le
parole. “Polizia. Voi cinque siete in arresto. Bene
in alto le mani e non toccate quelle aragoste.”
Mi
fissarono con un’espressione che sulle prime non riuscii a decifrare.
Non sembravano spaventati. Erano… ecco, erano proprio
sorpresi. Sbalorditi, per la precisione.
Non
se l’aspettavano proprio.
“Ma…
ma che ti prende?” cominciò il Pittore con voce esitante. “Mettete
giù quelle pistole. Se parte un colpo potete fare del male a qualcuno.”
Commovente.
“Su le mani, ho detto”. Poi mi rivolsi a uno dei miei colleghi.
“Tu, metti al sicuro quelle aragoste!”
“Guarda
che non è vietato dipingere le aragoste di blu” bisbigliò il Pellicano.
“Spiritoso!”
risposi sprezzante. “Come se non avessi capito il trucco. Altro
che multipli e collezionisti! Sappiamo tutti benissimo che cosa c’è
dentro!”
“E
cosa dovrebbe esserci dentro?” chiese Petit Fromage. Poi, rivolgendosi
ai suoi soci a voce bassa, ma non troppo, aggiunse: “Secondo me,
si è bevuto il cervello.”
Non
potei trattenermi.
“Così,
mi sarei bevuto il cervello?” scattai. “Siete voi che non avete
ancora capito. Il gioco è finito. Ve lo faccio vedere io, ve
lo faccio. Queste aragoste sono piene di…”
Afferrai
l’aragosta più vicina e la spaccai sul bordo del tavolino di marmo.
Poi
restai lì, come un pirla, a fissare i pezzi di guscio.
L’aragosta
era vuota.
Non ho mai visto il commissario tanto
incazzato.
“È
possibile” ha urlato, dopo essersi soffermato su un elenco piuttosto volgare
di miei presunti difetti, “è possibile essere tanto imbranati? Cosa
ti avevamo detto di fare, eh? Cosa ti avevamo detto?”
“Mi
avevate detto di tenere d’occhio i bar dove poteva esserci dello spaccio.”
“Esatto.
E tu hai ciondolato per sei mesi in un locale rispettabilissimo,
uno dove la droga non sanno neanche cos’è. E poi hai organizzato
un’irruzione in piena regola e mi sei andato ad arrestare un pittore famoso,
anzi, due pittori famosi, più un loro apprezzato collaboratore e amico
e due rispettabilissimi collezionisti, uno dei quali straniero.”
“Ma
glielo ho già spiegato” ho cercato di ribattere. “Credevo…”
Di
quel che credevo, a quanto pareva, non gliene importava assolutamente niente.
E non era finita lì.
“E
come se non bastasse hai fatto a pezzi un’opera d’arte dal valore di
diversi milioni. Un’autentica aragosta blu. E chi la paga,
adesso, dimmelo, quell’aragosta?”
“Ma
non è possibile! Guardi che le hanno fatto uno scherzo. Un’opera
d’arte, quella?”
“Perché,
sei diventato un esperto di arte moderna, adesso? Te l’hanno persino
spiegato, che era un multiplo. I multipli di quel Nat si trovano
nei principali musei. Al Moma ci hanno fatto una mostra. E
tu vai a trattarlo… vai a trattare lui e i suoi amici, come individui
sospetti…”
“Ma
erano degli individui sospetti! Se ne tenevano tutti alla larga.
E il barista mi ha detto…”
“Se ne tenevano alla larga perché quei
tre sono dei pezzi grossi e dai pezzi grossi, se non l’hai ancora capito,
testa di minchia che non sei altro, è sempre meglio tenersi alla larga,
senza dar retta alle chiacchiere del primo barista rincoglionito in vena
di pettegolezzi con cui capita di parlare. Almeno se non si vuole
essere retrocessi, degradati, trasferiti…”
Mi è venuto il sospetto che, in qualche
modo, alludesse a me.
“Ma
io…”
“Ma
tu niente. Dai, smamma, togliti dalle palle, adesso, che ho una riunione.
Dobbiamo decidere che cose terribili farti. E ricordati che
quell’aragosta da cinque milioni la paghi tu. A rate, magari, ma
la paghi tu.”
In effetti, dopo questo episodio, la
mia carriera ne ha sofferto un po’. Anche le trattenute per l’aragosta
mi danno abbastanza fastidio. Ma non sarò io a lasciarmi abbattere
da queste piccolezze, naturalmente. Tempo sei mesi, ritorno in pista
alla grande. Tutti, ogni tanto, possono commettere un piccolo errore.
Avrei
preferito, soltanto, che non mi avessero messo a fare la sorveglianza alla
galleria di arte contemporanea.
Carlo Oliva
Nemesi al Blue Lobster, in Killer & Co., Sonzogno, Milano, 2003